Un museo statunitense dedicato agli artisti arabo-americani ha raccolto il guanto della sfida. Emula l'ultima provocazione di Maurizio Cattelan, che nei giorni scorsi ha fatto parlare di sé per una (costosissima) banana.
La polemica sulla cosiddetta banana di Maurizio Cattelan – l’installazione da 120mila dollari dell’artista italiano sul muro dell’Art Basel di Miami, ingurgitata da David Datuna durante una provocatoria performance – ha un’appendice tutta araba e assai più gustosa. Perché Matthew Stiffler, responsabile della ricerca e dei contenuti presso l’Arab American National Museum di Dearborn, nel Michigan, ha deciso di attaccare al muro con il nastro adesivo uno shawarma, ossia il classico sandwich di pollo che riassume il concetto di fast food alla maniera mediorientale. Messa in mostra al museo un paio di giorni fa, «la nuova opera d’arte è un modo ironico per mettere un tocco arabo-americano sulla banana nastrata di Maurizio Cattelan», che ha conquistato titoli internazionali e ha preoccupato il mondo dell’arte la scorsa settimana, afferma Stiffler. In sostanza, secondo il direttore del museo, anche la sua è una provocazione, anzi è «una cosa divertente», salvo sottolineare che il vero obiettivo sarebbe un altro: «Vogliamo affermare che quando ci sono conversazioni sull’arte, anche gli arabi americani hanno qualcosa da dire».
L’opera, intitolata – nemmeno a dirlo – Shawarma, si inserisce dunque nella missione del museo di promuovere l’arte arabo-americana. Stiffler lo dice chiaro e tondo, senza vergogna: è un’operazione promozionale. «Il museo si sta concentrando sulla costruzione di una collezione di arte arabo-americana e sta mostrando la capacità degli artisti arabo-americani di esprimere le proprie necessità concettuali». Obiettivo raggiunto: il sandwich, twittato e ritwittato dall’account @ArabAmericanMus (traduzione: banana arabo-americana), ha attirato l’attenzione di molti sul museo, e diversi utenti hanno espresso ammirazione per l’approccio ironico dell’istituzione culturale alla vicenda.
«Una banana legata a un muro costa 120 mila dollari – scrive un utente di Twitter – ma questo non ha prezzo… questo è shawarma!». In realtà, l’idea dello shawarma non è stata così immediata. Inizialmente, Stiffler, consultandosi con la curatrice del museo Elizabeth Barret-Sullivan, in cerca di qualche simbolo arabo-americano che potesse servire da provocazione sull’opera di Cattelan, aveva pensato a una melanzana. Ma poi è arrivato il colpo di genio. Stiffler e Sullivan, riflettendo sul fatto che la città di Dearborn, che ospita una grande comunità araba, è nota per i suoi ristoranti, hanno optato per il sandwich. Così il museo ha acquistato il panino da Country Chicken, un ristorante arabo a Dearborn, senza avvisare lo chef che la sua creazione (pollo arrosto, salsa all’aglio, sottaceti e pane pita) si sarebbe presto trasformata in un’opera d’arte.
Per risolvere poi il problema della sottrazione dell’opera d’arte alla radice, ed evitare un altro «artista affamato», emulo di David Datuna, Stiffler e Barret-Sullivan hanno dato il via libera ai loro dipendenti. Così lo shawarma è stato sbocconcellato dalla designer multimediale del museo, Aya Krisht che, inevitabilmente, ha twittato: «Era davvero delizioso».
Perché Diwan
La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.
Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.
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Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).
Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).
Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).