«Sappiamo il tuo nome e il tuo indirizzo. Conosciamo la tua famiglia». Questo avvertimento, in uno stile che in Italia non esiteremmo a definire “mafioso” è apparso ieri via sms sui telefoni di giornalisti e attivisti che hanno partecipato alle manifestazioni di piazza in corso da giorni in varie città irachene.
Ce lo racconta via chat l’attivista Wareth Kwaish, conosciuto nel 2012 a Baghdad, quando era poco più che ventenne e sognava il cinema. Wareth, che oggi il cinema lo fa davvero, è nato a Sadr City, uno dei quartieri di Baghdad più popolosi e popolari e che più sono stati interessati dagli scontri e dalle fatali conseguenze, per un totale, nel Paese, di 109 morti finora accertati e di circa 4 mila feriti. Negli intervalli tra un’interruzione e l’altra – posto che il governo ha prima tagliato e poi ridotto l’accesso a internet anche tramite Vpn – Kwaish ci parla di oltre 2 mila persone in arresto: «In aeroporto a Baghdad c’è grande allarme anche nei confronti di chiunque porti con sé degli hard disk: il governo non ha intenzione di fare circolare alcuna prova della repressione contro i manifestanti».
Intanto, nonostante il coprifuoco imposto dalle autorità, le proteste che sono partite dalle città del sud dell’Iraq – Bassora in testa – e sono risalite attraverso Nassiriya, Diwaniya, Najaf, Amara, Hilla fino alla capitale Baghdad, non si placano. Anzi, hanno coinvolto, più a nord, anche il governatorato di Mosul, dove in città sono state accese candele in ricordo dei «martiri», issata la bandiera irachena, rispettato un minuto di silenzio e dove i manifestanti hanno gridato «Eyab Eyab», chiedendo al governo le dimissioni.
Le richieste delle piazze
Che cosa chiedano coloro che protestano è chiaro da giorni, e in Iraq non è una novità: i giovani in piazza pretendono un lavoro e una vita dignitosa in cui i cittadini possano usufruire dei servizi essenziali, dall’acqua all’energia elettrica, dall’istruzione ai servizi sanitari. Il tutto riassunto nel concetto, urlato in piazza, di madaniyyah, «senso civico». Le richieste non sono peregrine: l’Iraq, con una popolazione di quasi 40 milioni di abitanti, è il quinto produttore ed esportatore di petrolio al mondo (il secondo del gruppo Opec); genera inoltre energia elettrica, grazie al complesso sistema di dighe già attivato durante la dittatura di Saddam Hussein, eppure i cittadini iracheni subiscono da anni lunghe ore di black out quotidiani in tutto il Paese. Nonostante la grande ricchezza, la disoccupazione giovanile si attesa al 25 per cento e, secondo la Banca Mondiale, quasi tre quinti della popolazione vivono con meno di 6 dollari al giorno. L’Iraq è anche, da diversi anni, lo Stato più corrotto del Medio Oriente, secondo il Corruption perceptions index, ed è su questa base che i manifestanti chiedono soprattutto la fine di un sistema-Paese basato sulla corruzione, trasversale a tutti partiti e le classi sociali, che arma milizie strutturate o improvvisate, che taglieggia e spesso sequestra i cittadini.
In definitiva, i manifestanti chiedono al governo di dimettersi, ma il primo ministro Adel Abdul Mahdi non ne ha alcuna intenzione: affermando di non avere la bacchetta magica per risolvere i problemi endemici dell’Iraq, ha promesso vaghe riforme, che chi protesta – in gran parte della generazione dei ventenni, nati tra il 2000 e il 2003 – attende quantomeno dallo scorso anno, ossia da quando le elezioni politiche vennero vinte da una coalizione di partiti in altri tempi improbabile: l’alleanza di comunisti e sadristi. Questi ultimi hanno come leader il dignitario sciita Muqtada al-Sadr, già alla testa delle milizie sadriste durante l’occupazione americana ed oggi rifattosi il pedegree politico come populista, circonfuso dall’aura del duro e puro. Già nella campagna elettorale 2018 Moktada al Sadr tuonava contro la corruzione dell’establishment iracheno, menando fendenti sia ai partiti sciiti e filo-iraniani che avevano governato negli anni precedenti – uniti nella coalizione Hizb al Dawa al Islamiya, durante i lunghi anni di presidenza di Nuri al Maliki – sia alla nuova presidenza, sempre vicina all’Iran e, almeno in apparenza, non insensibile agli interessi degli americani).
Istanze trasversali
La protesta, che ha coinvolto fin qui circa 20 mila persone, è priva di leader e non ha una natura settaria: riunisce trasversalmente iracheni senza confini di quartieri, etnie e confessioni. Anche i cristiani sono scesi in piazza: così, insieme alle immagini del profeta Ali, spesso portate in manifestazione dagli sciiti, e a quella del generale Abdelwahab al Saadi – vincitore della guerra contro l’Isis alla guida delle Npu (Unità di mobilitazione popolare), ma poi allontanato dal suo incarico di comandante delle forze antiterrorismo – s’è vista anche l’immagine di qualche santo cristiano.
Mentre on line l’hashtag di riferimento è #savetheiraqipeople (Salvate il popolo iracheno), la maggior parte delle violenze in piazza nascono dagli scontri tra manifestanti e forze speciali di polizia, le unità antisommossa che, secondo le testimonianze e i video divenuti virali, hanno lanciato gas lacrimogeni e fumogeni letali e hanno sparato sulla folla. Diversi manifestanti, sia a Baghdad sia a Bassora, hanno denunciato anche la presenza nelle piazze di milizie di difficile identificazione, ma che sostengono essere iraniane (vestono di nero e parlerebbero la lingua farsi, secondo la testimonianza rilasciata da Laith al Majed alla testata on line Middle East Eye; Laith manifestava in piazza Tahrir a Baghdad). A Bassora gli attivisti Hussein Adil e la moglie Sara sarebbero stati aggrediti da sei uomini incappucciati, che li hanno uccisi, nella casa da dove guidavano le proteste e assistevano i feriti. Anche in questo caso, i testimoni ritengono si tratti di milizie filo-iraniane che «lavorerebbero» in favore del governo. Così gli attivisti spiegano anche l’attacco a Baghdad contro gli uffici dell’emittente saudita al Arabiya e di altre emittenti locali.
La situazione è tutt’altro che vicina alla normalizzazione: i governi del Qatar e del Bahrein hanno invitato i propri cittadini a lasciare l’Iraq il prima possibile. Si teme una sempre più grave acutizzazione delle violenze in questa rinnovata primavera araba in cui, per la prima volta dalla fine della dittatura di Saddam Hussein e dall’occupazione americana, la rabbia popolare è giunta a un punto di non ritorno.