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Tarek Mitri: «Perché sperare in un mondo disperante»

Stefano Pasta
18 settembre 2019
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Tarek Mitri: «Perché sperare in un mondo disperante»
Tarek Mitri, ex ministro libanese ed ex inviato dell'Onu in Libia

Intervistato in occasione dell’incontro internazionale «Pace senza confini» organizzato a Madrid dalla Comunità di Sant’Egidio (15-17 settembre), l’intellettuale e politico libanese traccia un quadro dei problemi mediorientali più scottanti.


«Dai leader riuniti a Madrid arriva un messaggio di speranza. Incontri come questo ci danno il coraggio di sperare in un mondo disperante». Lo dice Tarek Mitri, 69 anni, intellettuale libanese più volte ministro nel Paese dei cedri, al termine dell’incontro internazionale «Pace senza confini» organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio e dall’Arcidiocesi della capitale spagnola. È l’annuale appuntamento nello «spirito di Assisi» (dall’intuizione di papa Wojtyla nel 1986) che riunisce centinaia di leader cristiani delle diverse confessioni, rabbini, musulmani sunniti e sciiti, esponenti buddhisti e delle altre religioni asiatiche insieme a personalità della cultura ed esponenti politici. Tra i temi della «tre giorni» (15-17 settembre), i migranti, l’ambiente, il nazionalismo, il razzismo, il dialogo interreligioso e gli scenari di conflitto.

Tre questioni in Medio Oriente

Per Mitri la situazione in Medio Oriente è preoccupante. Indica tre questioni trasversali: non sono difficoltà nuove, ma, proprio perché non risolte, possono destabilizzare la regione. «Innanzitutto – dice – la Palestina e l’occupazione israeliana della Cisgiordania rimangono il problema centrale, seppur se ne parli meno nei Paesi arabi. Le promesse elettorali di Netanyahu non sono assolutamente un aiuto alla pace». Il secondo rischio riguarda la tensione tra Usa e Iran, con la scelta di Donald Trump di alzare la tensione: «Sebbene l’abbattimento di droni non sia un evento così irrilevante, al momento siamo di fronte a operazioni puntuali e limitate. Né Teheran, né Washington vogliono il conflitto, ma piccoli interventi possono scivolare in una guerra che non si può più controllare». Infine, il terzo fattore di rischio è «il fallimento della transizione verso la democrazia dopo le Primavere arabe del 2011».

«Gli Stati nazionali – sostiene l’intellettuale – sono divisi al proprio interno, la logica di sopravvivenza e quella identitaria aprono linee di frattura comunitaria in Iran, Siria, Libano, Iraq». Nella divisione del mondo arabo, oltre al wahhabismo dell’Arabia Saudita, Teheran ha diverse responsabilità: «È sulla difensiva di fronte agli Stati Uniti; anzi, dovremmo dire all’Occidente, perché l’Unione europea non riesce a fare da contrappunto alle politiche di Trump. Per gli iraniani la miglior difesa è rendere fragili i Paesi vicini, in cui le interferenze iraniane si contrappongono alle pressioni statunitensi».

«Sebbene non lo affermi esplicitamente – continua il docente dell’American University di Beirut – l’Iran si sente responsabile di tutti gli sciiti della regione; in Siria appoggia Assad: non è sciita ma è in corso una “sciitizzazione” degli alauiti». Anche sull’Eufrate si è osservata una radicalizzazione di questa frattura, di cui l’Isis si è fatto interprete «in quanto forza che ha trovato appoggio nella rabbia sunnita radicale contro la dominazione sciita in Iraq e del regime alauita in Siria». Ma questa tensione è centrale nella nazione stessa di cui Mitri è stato ministro: «Sunniti e sciiti sono due comunità di forza politica e numerica più o meno eguali. Vivevano insieme senza problemi, ma da vent’anni sono riemersi odi ancestrali e vecchie querelle. Oggi invertire questo processo è difficile: tra gli sciiti c’è la sensazione di essere minoranza oppressa, mentre tra i sunniti emerge lo sgomento per la debolezza di fronte alla divisione del mondo arabo e alla crescita dello sciismo politico».

In Siria la soluzione militare non dà prospettive

Domandiamo quindi a Mitri una lettura sulla situazione in Siria: «È valida l’interpretazione della crisi secondo i tre piani di interpretazione locale, regionale e internazionale (con i russi che hanno preso il posto degli Usa). Eppure, credo ci si debba concentrare su un punto semplice della vicenda siriana, l’origine: nel 2011 nasce come guerra contro civili, quando Assad reprime nel sangue le manifestazioni pacifiche di tanti attivisti siriani». Nella successiva radicalizzazione «i gruppi islamisti hanno avuto una grande parte, ma la responsabilità principale incombe sul regime di Assad».

Oggi sono tra 250 e 300 mila le vittime, decine di migliaia i morti nelle carceri, oltre 10 milioni (oltre metà della popolazione) ha dovuto lasciare la casa, sfollando in altre zone o all’estero. La Siria è un Paese martire, come ha ricordato a Madrid padre Jacques Mourad, rapito dall’Isis dal maggio all’ottobre 2015 e confratello di Paolo Dall’Oglio, di cui non si hanno notizie da sei anni. In tanti partecipanti hanno pregato per i due vescovi di Aleppo, Paul Yazigi e Mar Gregorios Ibrahim, frequentatori assidui degli incontri interreligiosi di Sant’Egidio e scomparsi nel 2013.

Proprio il 16 settembre, Putin, Erdogan e Rohani hanno annunciato che l’Assemblea costituente siriana è pronta a costituirsi. «La soluzione della crisi – ribatte Mitri – può essere solo politica; il quadro è quello della risoluzione dell’Onu del dicembre 2015, che definisce i termini della transizione. Una vittoria militare del regime di Assad, sostenuto dalla Russia, non è invece una soluzione, come prova che quasi nessun rifugiato sta facendo ritorno in patria».

Una speranza dall’Iraq

Alla fine dell’intervista chiediamo a Tarek Mitri qualche segnale positivo. Ci indica il patriarca di Babilonia dei Caldei, il cardinal Louis Raphaël I Sako, che passa vicino a lui in attesa della cerimonia finale dei tre giorni di «Pace senza confini». «Ieri a cena – racconta descrivendo il clima di amicizia che accompagna gli incontri di Sant’Egidio – mi diceva che in alcuni villaggi della Piana di Ninive, nel nord dell’Iraq, è tornato anche il 50 per cento dei cristiani». Prima della guerra erano oltre un milione, ora 500 mila. Intanto a settembre a Qaraqosh ha riaperto al pubblico la biblioteca cristiana, che era stata bruciata dai miliziani dell’Isis. «C’è più sicurezza – conferma il cardinal Sako – la situazione politica è migliorata, si può circolare per lavorare, la Chiesa promuove la pace e contrasta la vendetta». Ma anche il cardinale confessa un timore: «La tensione tra Usa e l’Iran spaventa noi cristiani in particolare, in tanti hanno paura per il futuro. Temiamo che le milizie filoiraniane possano cadere in una provocazione e accettare la trappola di una guerra per procura». Con una certezza: «Se ci sarà una nuova guerra, perdiamo tutti. Questa è la lezione degli ultimi due decenni di storia irachena».

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