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Giochi ancora aperti nella politica israeliana

Giorgio Bernardelli
18 settembre 2019
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Giochi ancora aperti nella politica israeliana
Volantini del partito Shas in un seggio della Galilea, alle elezioni del 17 settembre 2019 (foto David Cohen/Flash90)

Netanyahu, Lieberman, Odeh, Gantz. A spoglio quasi ultimato, un’analisi su come escono dalle urne i principali protagonisti della politica israeliana. Tra vincitori e sconfitti, il quadro futuro resta incerto.


Israele può anche fare a meno di un governo guidato da Benjamin Netanyahu. Ma ha le idee ancora parecchio confuse su come dovrà essere. Con i dati ormai quasi definitivi del secondo appuntamento con le urne del 2019, probabilmente è l’analisi di David Horovitz – il direttore di The Times of Israel – una buona bussola per provare a capire la fase politica che si apre con oggi nella politica israeliana. Ricapitolando: Blu e Bianco, il partito dell’ex generale Benny Gantz prende un solo seggio in più (32) rispetto al Likud di Benjamin Netanyahu (31). Ma nessuno dei due ha i voti sufficienti per formare una coalizione senza andare a bussare alla porta di Avigdor Lieberman, l’ex ministro della Difesa che con il suo partito Israel Beitenu porta a casa 9 seggi che lo rendono l’ago della bilancia. Mentre la Lista Araba – tornata unita sotto la guida di Ayman Odeh – porta a casa 13 seggi, tre in più rispetto alle elezioni di aprile, quando le formazioni arabe si presentarono divise.

Tre elementi, tre personaggi

Pare che gli elementi fondamentali siano tre, tanti quanti i personaggi principali di questa storia.

Primo: la sconfitta di Netanyahu. «Re Bibi» ha cominciato a perdere all’indomani del voto di aprile, quando sentendosi ancora forte non ha saputo capire la trappola che Lieberman gli stava preparando, cavalcando il malcontento per tutto quanto in questi anni il Likud ha concesso all’estrema destra e ai partiti religiosi pur di mantenerli legati a sé. Il grande manovratore, così, all’improvviso si è ritrovato in un angolo. Netanyahu a quel punto ha giocato la carta della ripetizione delle elezioni, ma in tutta la campagna elettorale non ha fatto altro che inseguire. Ha alzato continuamente l’asticella delle promesse ai coloni. E alla fine ha giocato il suo grande classico: l’appello ad andare a votare per lui come baluardo dell’ebraicità dello Stato, «messa in pericolo» dagli arabi israeliani che osano andare a votare.

La novità è che in Israele non funziona più. L’elettorato è stanco di questa personalizzazione estrema, intrecciata alle sue vicende giudiziarie (tra due settimane è in programma l’interrogatorio – rinviato più volte – che probabilmente aprirà la strada al suo rinvio a giudizio per corruzione). Come dice Horovitz: non vuol dire che Netanyahu sia finito, ha ancora parecchie carte in mano per mettersi di traverso a qualsiasi intesa; ma il vento ormai sembrerebbe cambiato.

Secondo: la vittoria di Lieberman. Oggi è lui ad avere in mano le chiavi della prossima Knesset e ha tutta l’intenzione di utilizzarle. Tanto è vero che subito dopo gli exit poll ha cominciato a dare le carte, rilanciando come unica opzione l’idea di un governo di unità nazionale formato da Blu e Bianco, Israel Beitenu e Likud (sottinteso: senza Netanyahu). Lieberman sembra deciso soprattutto su un punto: lasciare fuori dall’eventuale governo di unità nazionale i due partiti religiosi. In queste settimane ha raddoppiato i voti cavalcando la questione dei rapporti tra laici e religiosi nella società israeliana; tema incandescente che Netanyahu ha sempre cercato di aggirare perché lo Shas e l’Utj (Giudaismo uniti nella Torah, il partito degli askenaziti) erano pilastri essenziali della sua coalizione. Ma in questo modo la bolla delle tensioni ha continuato a gonfiarsi e adesso è scoppiata. E si annuncia come un argomento cruciale nelle discussioni in Israele nei prossimi mesi.

Terzo: accanto a Lieberman c’è però anche un altro vincitore ed è Ayman Odeh. Con la Lista Unita ha riportato alle urne gli arabi (60% di affluenza, dieci punti in più di aprile), eguagliando in termini di seggi alla Knesset il risultato del 2015. Ma c’è una differenza sostanziale: Odeh quei voti adesso vuole farli contare. In campagna elettorale aveva già rotto il tabù che impediva ai partiti arabi anche solo di ipotizzare una collaborazione con partiti sionisti. Lui invece ha presentato a Gantz una serie di condizioni per aderire a una coalizione di centro-sinistra; e al primo punto ha posto ovviamente l’abrogazione della contestata legge su Israele Stato-nazione degli ebrei. Blu e Bianco ha mostrato freddezza e difficilmente le cose cambieranno adesso. Però l’elettorato arabo ha mostrato di gradire il modo in cui Odeh ha impostato questo dialogo; probabilmente è l’inizio di un modo diverso di stare nella politica israeliana.

L’incognita Gantz

Resta infine la domanda: e Gantz? Probabilmente sarà a lui che il presidente Reuven Rivlin conferirà l’incarico di formare un governo. Ma è comunque difficile metterlo tra i vincitori. Blu e Bianco tiene, ma non sfonda e si porta dietro tutte le ambiguità di un movimento nato sostanzialmente in opposizione a Netanyahu. Gantz ha promesso una leadership che torni a unire Israele dopo gli anni in cui «re Bibi» ha governato cavalcando le divisioni. Gli elettori questo sembrano volere. Ora, però, con le trattative per la formazione del governo, l’ex generale non potrà più nascondersi: è arrivato il momento di dimostrare se è in grado di farlo per davvero.

 

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