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Nella prigione di Cristo

Marie-Armelle Beaulieu
1 luglio 2019
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I Vangeli non ne citano nemmeno una, eppure a Gerusalemme ben
tre prigioni si offrono alla devozione dei pellegrini. Quella all’interno del Santo Sepolcro per oltre mille anni è stata anche la più venerata.


Sono le 16:08. Il dragomanno del Santo Sepolcro chiede ai turisti di lasciare libero il passaggio. La processione dei frati procede salmodiando: «Amore vinctus venerat vincire nos per gratiam; hunc vinculis multinodis servus nec horret stringere – Egli era venuto, prigioniero d’amore, per riscattarci alla vita di grazia; lo schiavo non inorridisce nel legarlo con pesanti catene».

Il sacerdote che guida la processione quotidiana dei francescani al Santo Sepolcro entra nella prigione e continua a pregare: «Ti preghiamo, o Signore, di spezzare le catene dei nostri peccati, perché, liberi dai ceppi della nostra fragilità umana, meritiamo di godere perfetta libertà di spirito».

Come gli armeni durante la loro processione alla fine di ogni settimana, in questo luogo – proprietà della Chiesa greco-ortodossa – i francescani venerano ciò che la tradizione tramanda come «la prigione di Cristo».

Nel Medioevo questa modesta cappella era il secondo luogo più venerato della basilica, dopo la Tomba e prima del Calvario.

Leggendo con attenzione i Vangeli, notiamo che nessuno accenna al fatto che Cristo fu messo in prigione. Al massimo è lecito supporre che, tra l’arresto la sera del giovedì e la condanna il venerdì mattina, sia stato tenuto sotto sorveglianza da qualche parte. Secondo i greco-ortodossi questa «custodia» potrebbe essere avvenuta nei pressi del pretorio, da cui l’esistenza di un Monastero del pretorio sulla Via Dolorosa, nei cui sotterranei si possono visitare ambienti scavati nella roccia (in uno di questi è stato individuato uno spazio definito «carcerario»).

Secondo altri testi, invece, questa notte di attesa di Gesù andrebbe collocata nella casa del sommo sacerdote Caifa, sul Monte Sion. È questa la tradizione legata a San Pietro in Gallicantu, luogo che presenta delle cavità ricavate nella roccia che potrebbero essere servite da prigione.

Trattandosi del Santo Sepolcro, e come nel tentativo di conciliare le tradizioni, gli autori antichi, a partire da Epifanio nel V secolo, parlano di una «camera di custodia dove Cristo fu imprigionato, e anche Barabba».

Il francescano Filippo da Savona, dal canto suo, nel 1280 menziona il luogo «dove gli ebrei l’hanno posto finché la Croce non è stata eretta». Cristo quindi avrebbe dovuto aspettare non una ma più volte che la sua sorte fosse decisa. Una cosa è certa: gli studi hanno dimostrato che questo spazio esisteva già nella pianta della basilica costantiniana del IV secolo, nel triportico nord – attraverso il quale vi si accedeva –, ma fuori dal martyrion. Allora si trovava di fronte al Calvario, su un asse nord-sud.

Questa cappella del carcere di Cristo nel Medioevo ha conosciuto una fortuna che nessun’altra prigione di Gerusalemme può vantare. La maggior parte delle guide di Terra Santa medievali, e in ogni caso le più note, ne fanno menzione. E molti pellegrini la citano nei loro resoconti, anche se alcuni si mostrano scettici. La gente continuò a recarvisi nonostante il divieto imposto nel 1238 da papa Gregorio IX, che rimproverava ai canonici del Santo Sepolcro di sfruttare la credulità dei fedeli mostrando loro – dietro compenso – una «presunta prigione di Cristo».

Secondo Anthony Bale del Birkbeck College (Università di Londra), l’interesse per questo luogo ha origine nella pratica spirituale del pellegrino. Per Bale «nel XII secolo, nella cristianità latina, la detenzione di Cristo era diventata una verità di devozione nei racconti popolari della Passione». La prigione pertanto non era vista come un luogo di umiliazione, ma al contrario come un luogo di grazia.

Una spiritualità che chiarisce la scelta della figura sull’unico capitello istoriato ancora visibile, identificabile con Daniele nella fossa dei leoni. Daniele, colui che il re Dario fece dare in pasto ai leoni, esclamando: «Quel Dio, che tu servi con perseveranza, ti possa salvare!» (Daniele 6,17).

Diversi autori medievali scorgono in Daniele una prefigurazione di Cristo: la sua liberazione annuncerebbe la risurrezione, mentre la sua prigionia una sorta di purgatorio – nel significato di luogo di purificazione – e la discesa del Salvatore agli inferi.

Visitare il carcere di Cristo diventa quindi fonte di grazia per lo stesso pellegrino. Più tardi, nel XIV secolo, quando le porte della basilica rimangono chiuse per molte ore al giorno e il solo modo per visitare i luoghi è farvisi rinchiudere dentro al tramonto, la notte è vissuta come una «gioiosa reclusione».

Il domenicano Felix Fabri così descrive la sua notte al Santo Sepolcro: «Non appena fummo tutti all’interno, i Saraceni chiusero immediatamente le porte della chiesa e le sbarrarono con chiavistelli e serrature, come si fa dopo aver spinto con forza i ladri in una cella. Se ne andarono portando con sé le chiavi, lasciandoci così prigionieri della più suggestiva, lieve e spaziosa delle prigioni, nel giardino del preziosissimo sepolcro di Cristo, ai piedi del monte Calvario, al centro del mondo. Oh, che gioiosa reclusione! Che desiderabile prigionia! Che delizioso imprigionamento! Che dolce cattività, quella che consente al cristiano di essere rinchiuso nel sepolcro del suo Signore!».

Nel Medioevo questa esperienza era facilitata dal luogo stesso. Tutti i pellegrini sono concordi nel riferire di una camera buia, voltata, senza finestre. Alcuni descrivono delle catene fissate alla parete, e «la gogna in cui misero i piedi di Gesù, fatta di marmo».

Gli antichi pellegrini oggi non la riconoscerebbero più. I recenti interventi di restauro, con tutta questa luce e il marmo, hanno fatto perdere alla cella la sua atmosfera di austerità e di intimità, che la penombra contribuiva ad accentuare.

Ai pellegrini oggi non rimane che seguire la processione quotidiana dei francescani, che in tutti i testi relativi a questa stazione ricrea l’esperienza medievale: «O Gesù, sciogli i tuoi fedeli dalla schiavitù del peccato, e, affrancandoli dalla servitù del male, stringili nell’abbraccio del perdono. O Gesù, consolante speranza, per le catene da cui è avvinto il tuo Corpo, degnati di rimettere le colpe ai peccatori e donare loro il tuo perdono».


 

Un restauro finalmente giunto a termine
Dopo 10 anni i lavori sono stati completati

Decisa nel 2009, la fine dei lavori alla prigione di Cristo presso il Santo Sepolcro è stata celebrata in maniera molto discreta dal patriarcato greco-ortodosso all’inizio del 2019. Danneggiata in anni recenti da un incendio, la cappella aveva davvero bisogno di interventi. Nelle intenzioni del patriarcato, il restauro avrebbe dovuto valorizzare gli elementi architettonici di età costantiniana e quelli risalenti all’epoca del patriarca di Gerusalemme Modesto, che promosse una parziale ricostruzione della basilica dopo la distruzione causata dai persiani nel 614.

Dovendo però nel frattempo far fronte alla crisi economica greca, il patriarcato greco-ortodosso ellenico è stato costretto a tagliare i fondi. Alla fine, i lavori sono cominciati sotto la direzione (e con il finanziamento?) di un gruppo di lavoro russo. Ma un disaccordo sorto tra l’équipe e il patriarcato ha portato a uno stop. I lavori sono ripresi soltanto nel 2017, e sono stati inaugurati quest’anno alla presenza della famiglia ucraina che li ha sovvenzionati.

 

(testi tradotti da Roberto Orlandi)

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