Cristina Cattaneo è una «taglia-morti» (l’espressione gergale è utilizzata autoironicamente tra gli operatori della medicina legale e dell’antropologia forense). In questo libro dimostra anche doti narrative non trascurabili la direttrice del Laboratorio di antropologia e odontologia forense (Labanof) di Milano, che da oltre vent’anni «si dedica prevalentemente allo studio di resti umani, da quelli appartenuti a vittime della mafia rinvenute sotto le fondamenta di costruzioni nell’hinterland milanese, a quelli degli antichi abitanti della Milano romana».
Sin dalle prime pagine, la Cattaneo ci rammenta che «l’esigenza di identificare i nostri morti è atavica, l’esigenza di poterli toccare, per accertarsi che davvero non siano più in vita, per poter dare loro una sepoltura, o almeno accudirli un’ultima volta». Ci sono però anche considerazioni d’ordine giuridico che inducono a dare un nome a un cadavere ogni volta che è possibile farlo. Scrive l’autrice a pagina 15: «I dettami universali del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani in qualche modo esortano sempre a dare un nome ai morti e a dare loro sepoltura (…) I morti però non si identificano soltanto per rispetto, per tutelare la loro dignità e per salvaguardare la salute (non solo mentale) di quelli che si lasciano dietro: si identificano anche per non incorrere in tute le problematiche che possono insorgere a livello penale, civile e amministrativo. Come si fa a imbastire un’indagine per omicidio senza conoscere il nome della vittima? Come si fa a procedere a successioni, eredità e ad altri atti amministrativi senza la certezza del decesso? Come si fa a far valere i diritti di orfani e vedove senza certificati di morte?».
Tutto ciò è vero, in linea di principio, a qualsiasi latitudine, ma il principio non regge sempre alla prova della realtà. La scienziata milanese osserva che all’indomani di tragedie globali, molto sentite in Occidente anche se magari geograficamente lontane, tanti colleghi da tutto il mondo si precipitarono ad offrire le proprie competenze professionali per l’immane compito di riconoscimento delle vittime (così accadde per gli attentati di New York e Washington dell’11 settembre 2001; per il disastro aereo all’aeroporto di Linate, neppure un mese dopo, e per lo tsunami nel sud-est asiatico a fine dicembre 2004).
Al contrario… «rimasi scioccata quando mi accorsi che, per le tragedie dei barconi pieni zeppi di migranti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente, morti e sepolti senza un nome, nessuno della comunità forense batteva un ciglio. Nessuno della “mia” comunità, quella che sapeva benissimo che cosa significasse lasciare un corpo senza identità, e che aveva sgomitato in occasione di tanti altri disastri, aveva mosso un dito» (p. 27).
L’«emergenza» dei migranti defunti durante le traversate del Mediterraneo va avanti ormai da quasi vent’anni, ci rammenta il medico legale: «Dal 2001 hanno perso la vita oltre trentamila persone: migranti che cercano di fuggire dai loro paesi di origine. (…) Fino al 2018 di tutti i morti nel Mediterraneo, oltre il cinquanta per cento è stato preso in carico dall’Italia. Nel 2017 gli arrivi dei migranti vivi, da noi, sono stati 117.654: i morti 2.800» (pp. 40s.).
È proprio considerando questi dati che negli ultimi anni la dottoressa Cattaneo e i suoi colleghi del Labanof si sono buttati in un’impresa per molti versi pionieristica in Italia: raccogliere tutti gli elementi che consentono di identificare le centinaia di migranti morti in seguito a naufragi al largo di Lampedusa tra il 3 ottobre 2013 e il 18 aprile 2015.
Le pagine di questo libro sono come un docu-film su carta, una specie di diario bordo di quell’esperienza umana e professionale tanto importante. (g.s.)
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Cristina Cattaneo
Naufraghi senza volto
Dare un nome alle vittime del Mediterraneo
Raffaello Cortina Editore, Milano 2018
pp. 198 – 14,00 euro
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