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Il principe e la rapper

Laura Silvia Battaglia
10 luglio 2019
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L'Arabia Saudita modellata dal principe ereditario Mohammed bin Salman s'apre alla musica pop internazionale. Un concerto della rapper statunitense Nicki Minaj, alquanto provocatoria nei suoi testi e nei suoi video, infiamma gli animi. Insorgono le donne e i religiosi.


In Arabia Saudita è un vero e proprio polverone che in questi giorni non è destinato a placarsi. Anzi, sui social media, le critiche se non la rabbia e la riprovazione montano senza quartiere. La questione è la pietra dello scandalo che getta più che una cattiva luce sulle riforme annunciate e poi attuate da Mohammed bin Salman, il principe ed erede al trono saudita, nel suo documento innovatore Vision 2030. Per gettare il cuore oltre l’ostacolo di ogni regola conservatrice, infatti, i sauditi hanno invitato ad esibirsi nel Paese la rapper Nicki Minaj che, almeno finora, sembrerebbe intenzionata ad apparire sul palco dello stadio King Abdullah Sports, nella cornice del Jeddah World Fest, il prossimo 18 luglio. La Minaj è una rapper americana famosa, formosa e provocatrice. Le sue hit sono sempre una sorpresa per i fan e la più sua canzone più famosa, Anaconda, accompagnata da un video clip inequivocabile, la vede impegnata nell’identificare la sua persona con un posteriore di grandi proporzioni. Quello che, in sostanza, la star possiede, e che viene messo in bella evidenza dalle sue generose nudità e da una danza che include il twerking, uno stile in cui i ballerini si muovono spingendo indietro i loro fianchi o scuotendo i glutei, in posizione accovacciata. A questo si aggiunga il fatto che Minaj infioretta le sue canzoni con un turpiloquio spinto e con provocazioni dirette contro le religioni, al punto che alcuni gruppi cristiani criticarono la sua performance ai Grammy Awards del 2012, quando la Minaj mise in scena pure dei (finti) preti danzanti e un (finto) esorcismo.

L’esibizione della star è un grande passo avanti del regno saudita verso l’apertura alla musica pop internazionale, si dirà. Per certi versi sì, ma per altri versi, l’esibizione della Minaj è stata additata da più parti come una manifestazione di ipocrisia, una buccia di banana sulla quale sarebbe stato meglio che il regno dei Saud non scivolasse. Al suo concerto, al quale sono ammessi anche i teenager con più di 16 anni d’età, non sarà possibile introdurre alcol e droghe. Fin qui nulla di eccezionale. Ma, ovviamente, il parterre del pubblico rimarrà rigorosamente femminile e velato, quantomeno con hijab e abaye (veli e tuniche). Così, la scelta dei governanti sauditi ha avuto l’infausto potere di scontentare tutti e, soprattutto, tutte. Le reazioni delle giovani fan saudite, sui social, vanno dallo choc alla gioia, dalla critica alla delusione. Su Twitter c’è pure una donna in niqab (ha ottenuto più di 37 mila visualizzazioni) che accusa il governo saudita di ipocrisia, ritenendo che non abbia alcun senso invitare la Minaj e continuare a chiedere alle donne di velarsi e vestire l’abito nero lungo, l’abaya. La donna, piuttosto adirata, dice senza filtri: «La Minaj sta per andare a scuotere il culo a casa nostra, in Arabia Saudita. Tutte le sue canzoni sono indecenti e parlano di sesso. E voi mi chiedete di indossare l’abaya? Che diavolo!?»

Anche gli ultra-conservatori gettano benzina sul fuoco e postano e ripostano sui social le canzoni della Minaj che proverebbero il suo atteggiamento blasfemo anche nei confronti dell’islam, augurandosi che venga fatta fuori dagli organizzatori (oltre che da Dio): così fioriscono post e thread che mettono insieme tutti i versi in cui la star pronuncia il nome di Allah invano, sussurrando Mashallah (per Dio, che Dio sia lodato – ndr) per commentare il corpo muscoloso e sexy di un possente ballerino. Al momento, però, non si muove foglia che Mohammed bin Salman e le multinazionali della musica non vogliano. Il concerto annunciato s’ha da fare e insieme a Minaj, allo stadio di Jedda, si dimeneranno anche l’artista britannico Liam Payne e l’americano DJ Steve Aoki, dopo che, nei mesi scorsi, sono già passati da lì Mariah Carey, Enrique Iglesias, i Black Eyed Peas, Sean Paul, DJ David Guetta e DJ Tiesto.

Lo spettacolo del 18 luglio sarà trasmesso in mondovisione da MTV e i sauditi hanno promesso anche dei visti ad hoc elettronici e rapidi per tutti gli stranieri che vogliano partecipare all’happening. Una vicenda, questa, che suona come uno schiaffo non solo agli aficionados della separazione dei sessi nello spazio pubblico e della segregazione delle donne ma anche a tutti quei ragazzi sauditi che sono stati recentemente arrestati perché trovati dalla polizia morale saudita a suonare nelle cantine di casa propria la stessa musica ma a tutto volume. E l’accusa mossa a giustificazione dell’arresto non era «disturbo della quiete pubblica».

Aggiornamento dell’ultima ora: Sui media internazionali rimbalza questa mattina (10 luglio 2019) l’annuncio di Nicki Minaj che ha deciso di annullare il concerto in Arabia Saudita – dice – dopo essersi meglio informata sulle violazioni dei diritti umani che avvengono in quel Paese. La cantante spiega di volersi schierare per la libertà di espressione e a fianco delle donne e della comunità LGBTQ.

Ultimo aggiornamento: 10/07/2019 11:44


 

Perché Diwan

La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.

Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.

Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).

Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).

Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).

 

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