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Chatila, la città degli invisibili

Elisa Pinna
16 luglio 2019
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Chatila, la città degli invisibili
Un’immagine del campo profughi di Chatila: case fatiscenti in mezzo a cumuli di spazzatura. (foto Catay/Shutterstock.com)

Nel 1982 Chatila, insieme al vicino quartiere di Sabra, fu teatro di un tragico eccidio. A distanza di quasi quarant’anni questo sobborgo di Beirut, Libano, resta un poverissimo «mondo a parte», oggi abitato in prevalenza da profughi siriani.


Di Aisha, una signora siriana dall’età indefinibile, si vedono solo un paio di occhi stanchi. Indossa un niqab nero che la ricopre dalla testa ai piedi. È arrivata tre anni fa a Beirut da Aleppo, insieme al marito e ai figli, lasciandosi alle spalle macerie e paura. Lei è di origini palestinesi e alcuni parenti la ospitano, insieme alla famiglia, in un bilocale senza servizi, dove sono accatastati in diciassette. Di tornare ad Aleppo non ne vuole però sentire parlare. «Non abbiamo niente là e chi è rimasto ci dice che stanno morendo di fame».

Siamo nel campo profughi di Chatila, dove i discendenti dei rifugiati palestinesi del 1948 sono diventati una minoranza, sommersi, a partire dal 2013, dalla marea umana dei fuggitivi del conflitto siriano. «Nel campo profughi di Chatila vivono ormai circa 25 mila persone. Il 25 per cento è costituito da palestinesi, e il 75 per cento da siriani. Alcuni provengono dai campi profughi palestinesi esistenti in Siria, ma la maggior parte sono siriani-siriani», ci spiega Kassen Aina, direttore generale di National Institution of Social Care and Vocational, una ong che si occupa soprattutto di aiutare bambini e donne. «A Chatila vi è una densità umana che rende il campo invivibile».

Non è facile descrivere Chatila, un chilometro quadrato semicentrale della capitale libanese, divenuto negli ultimi settant’anni simbolo delle guerre, delle incessanti ondate di profughi, delle ingiustizie che hanno sconquassato il Medio Oriente, e teatro, insieme all’adiacente quartiere di Sabra, di uno dei massacri più crudeli avvenuti nella regione durante il XX secolo: quello del settembre 1982 quando, dopo il ritiro dei combattenti dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) dal Libano, i falangisti cristiani libanesi, con la complicità dell’esercito israeliano, massacrarono migliaia di donne, bambini e vecchi palestinesi a cui era stata promessa protezione.

Oggi Chatila si presenta come un labirinto di vicoli stretti e claustrofobici, immersi nel buio perché la luce del sole non riesce a filtrare tra i muri scrostati e pericolanti di palazzi divenuti troppo alti, in quanto ogni anno sono stati aggiunti piani, stanze, scale, passaggi. Solo verso il cielo è possibile un’espansione edilizia ed ora il cielo non si vede più. Si cammina a fatica tra scheletri di edifici e costruzioni fatiscenti, appiccicati tra loro e legati da una ragnatela paurosa di fili elettrici, tubi, scarichi.

L’unico spazio aperto di Chatila si trova appena fuori del campo. È un piazzale sterrato, la fossa comune dove sono seppellite a centinaia le vittime del massacro del 1982. Una lapide le ricorda collettivamente ed alcuni alberi di limoni, piantati più di un decennio fa da un giornalista italiano, Stefano Chiarini, fanno un po’ di ombra al «cimitero». A Chatila il governo libanese «semplicemente non esiste», dice Kassen Aina. «Non fornisce acqua né elettricità, né assistenza scolastica o sanitaria. Tutto dipende dalle organizzazioni umanitarie, che però attraversano un’acuta crisi di fondi».

A Chatila sono cinque generatori autonomi a garantire un minimo di energia elettrica e l’acqua per lavarsi è quella del mare. L’acqua potabile si beve dalle bottiglie, per chi può permetterselo. «Dopo 70 anni, il Libano – afferma ancora l’esponente della ong – continua a non riconoscere i diritti dei 300-400 mila profughi: i palestinesi non possono comprare casa o negozi, non possono esercitare 39 professioni (tra cui il medico o l’avvocato), i bambini palestinesi non possono iscriversi alla scuola pubblica libanese». Sono invisibili.

Poi, a partire dal 2013, centinaia di migliaia di siriani terrorizzati dalla guerra in patria hanno cominciato ad attraversare il confine libanese. Oggi si calcola che siano un milione, forse anche di più. Tra loro 500 mila bambini, di cui solo la metà risulta iscritta alle scuole pubbliche libanesi, diritto che ai siriani è concesso. Il governo di Beirut chiama i siriani nazihem, gli sfollati. Come nel caso dei palestinesi, il Libano non vuole legittimare la presenza di un altro enorme numero di profughi. Stiamo parlando di un Paese piccolo, con una popolazione autoctona di 4 milioni e mezzo di persone e con la percentuale più alta al mondo di rifugiati.

A complicare le cose vi è poi la costituzione nazionale basata su una spartizione del potere tra le varie componenti religiose, che fa riferimento al censimento del 1932, quando ancora i cristiani rappresentavano il 50 per cento della popolazione e gli sciiti erano una piccola minoranza rispetto ai sunniti (secondo le ultime stime ufficiose sarebbero ora maggioranza della popolazione).

A differenza dei palestinesi, i siriani possono acquistare proprietà. Si sono sparpagliati in tutto il Paese. I più ricchi hanno comprato casa nel centro di Beirut, altri hanno affittato appartamenti in zone periferiche, il grosso però (l’87 per cento dei profughi siriani registrati) è finito a vivere nelle aree più povere del Paese e nella dozzina di campi profughi palestinesi, come Chatila. Il mercato immobiliare si è gonfiato. I prezzi sono raddoppiati, anche a Chatila, dove una camera si affitta persino a 200 dollari al mese.

«Nel campo le tensioni crescono, ci sono state risse. Ai tradizionali contrasti tra le formazioni palestinesi (da Hamas a Fatah) si sono aggiunte adesso le rivalità con i siriani», osserva Kassem Aina. La crisi economica, l’aumento dei prezzi e del costo della vita, la disoccupazione riguardano tutto il Libano, ma a Chatila gli effetti si moltiplicano. Così come la diffusione della droga, diventata una piaga sociale. In tanto sfacelo, resistono isole di speranza. Come il centro di accoglienza Beit Atfal Assumoud, diretto da una donna coraggiosa, Jamila Shehade, sopravvissuta, quando aveva 23 anni, al massacro di Sabra e Chatila, e che ha ricostruito con altre madri-coraggio un luogo per dare un’istruzione ai bambini più sofferenti.

Dall’oscurità dei vicoli, oggi si entra in un edificio dove le classi, dall’asilo alle medie, sono piene di colori, disegni. I bambini di Chatila non possono giocare per strada e qui hanno almeno lo spazio per ritrovarsi insieme. «Ci prendiamo cura di 119 bambini, tra cui anche siriani. Il 70 per cento è costituito da orfani, il 30 per cento ha situazioni familiari difficili, genitori drogati o affetti da malattie mentali, tumori; adulti che a loro volta necessitano assistenza». Il centro dispone anche di un ambulatorio medico e dentistico. Jamila ci conduce nelle classi. I bambini più piccoli recitano i nomi dei villaggi della Palestina da cui provengono le loro famiglie. «Devono mantenere vive le origini, il diritto al ritorno è un diritto e non un sogno».

A presidiare la memoria è anche un luogo inaspettato e non facile da trovare nel dedalo oscuro di Chatila. È il Museo dei ricordi, una sola stanza riempita con oggetti di un’altra epoca: vasi, lanterne, vecchie radio e chiavi di case che ormai non esistono più. È una piccola selezione di ciò che riuscirono a portarsi dietro le centinaia di migliaia di palestinesi, espulsi dall’esercito israeliano nel 1948. «Se perdiamo anche la memoria, abbiamo perso tutto – osserva il direttore Mohammed Khatib –. Purtroppo la situazione è così disperata che sempre meno persone sono interessate a tramandare ai loro figli le tradizioni o a dar loro quell’istruzione, che è stata storicamente la forza dei palestinesi».

Basta fare una passeggiata nel circostante mercato di Sabra per vedere nugoli di bambini che, tra capre, galline, cumuli di immondizia e calcinacci, aiutano gli adulti nelle loro faccende quotidiane, invece di essere a scuola. Altri minori, nel centro di Beirut, girano con carretti improvvisati per raccogliere dai cassonetti pezzi di metallo da rivendere. Sono palestinesi, siriani, anche libanesi. È la nuova generazione che cresce nelle tenebre dimenticate di Chatila e delle altre 251 aree del Libano più vulnerabili – secondo dati dello stesso governo – alla miseria.

Terrasanta 4/2019
Luglio-Agosto 2019

Terrasanta 4/2019

Il sommario dei temi toccati nel numero di luglio-agosto 2019 di Terrasanta su carta. Con un lungo dossier dedicato alla pittura di Marc Chagall e ai suoi riferimenti alla Bibbia. Buona lettura!

Libertà religiosa, la rivoluzione di Abu Dhabi
mons. David M. Jaeger *

Libertà religiosa, la rivoluzione di Abu Dhabi

Il documento sulla Fratellanza umana rispecchia acquisizioni maturate tra i cattolici con il concilio ecumenico Vaticano II: tutti gli esseri umani hanno «diritto alla libertà sociale e civile in materia di religione».

Nella città di Laodice
Monica Borsari *

Nella città di Laodice

La Laodicea biblica è individuata sulle sponde del fiume Lico, un affluente del Meandro, nell’Anatolia sud-occidentale. La città deve il nome alla moglie del sovrano seleucide Antioco II. Qui sorse un’antichissima comunità cristiana citata nell’Apocalisse.

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