Israele, Giordania, Egitto, Sudan, Eritrea, Gibuti, Arabia Saudita e Yemen. Tutti i Paesi che si affacciano sul Mar Rosso hanno accettato di collaborare a un istituto di ricerca congiunto: il Centro di ricerca transnazionale del Mar Rosso. La notizia ha trovato eco sui media regionali la settimana scorsa.
Il nuovo centro sarà responsabile dello studio, del monitoraggio e della protezione dei coralli del Mar Rosso, del loro stato di salute e della biodiversità. Proteggere i coralli significa anche favorire la loro salutare simbiosi con le alghe, vitale per la fauna sottomarina che nelle barriere coralline trova un riparo e un luogo in cui riprodursi. Indirettamente si favorisce il permanere di una peschiera apprezzata tanto dai pescatori quanto dai turisti, attratti dai variopinti e animati tesori del mare. In tal modo si contribuisce anche allo sviluppo economico dei Paesi della regione. Preservare le barriere sottomarine, inoltre, equivale a tenere in vita quello scudo naturale che contrasta l’azione erosiva delle onde sulla costa.
Così, secondo il giornale online The Times of Israel, il nuovo centro è indubbiamente «la più grande iniziativa comune nella regione, sia per il numero di Paesi coinvolti sia per la vastità geografica e la complessità degli ecosistemi studiati».
Oltre all’Egitto e alla Giordania, che hanno già firmato trattati di pace con lo Stato ebraico, altri cinque Paesi a maggioranza musulmana che non hanno formali relazioni diplomatiche con Israele partecipando a questo fronte ecologico unito sulla base dello scambio di informazioni scientifiche.
Dalle Alpi al Mar Rosso
Per ovvi motivi politici, il nuovo centro sarà supervisionato e gestito dall’Istituto politecnico federale di Losanna, in Svizzera. Il politecnico fungerà da «ombrello neutrale» per supervisionare l’attività di ricerca del nuovo centro che avrà sede a Berna e assicurerà il collegamento tra i vari Paesi, spiega il ricercatore israeliano Maoz Fine, biologo marino della facoltà di Scienze biologiche Mina e Everard Goodman, dell’Università Bar-Ilan (Tel Aviv), citato dall’emittente televisiva i24News. Proprio Maoz Fine, il cui laboratorio si trova ad Eilat (Israele), è tra gli iniziatori del progetto.
Concretamente, riferisce The Times of Israel, «i ricercatori svizzeri lavoreranno individualmente con ciascun Paese per collocare in mare centinaia di centraline di controllo che trasmetteranno dati in tempo reale a un database ospitato nel cloud del politecnico di Losanna. Verranno registrati elementi relativi a temperatura, correnti e venti».
Oltre a questi dati, il nuovo centro – i cui ricercatori lavorano nei più svariati campi: oceanografia, biologia, genetica, ecologia, geologia, conservazione della natura, ingegneria civile e ambientale – vuole analizzare i danni causati dalla vicinanza di aree urbanizzate, attività turistiche, inquinamento agricolo, sovrapesca e scarichi industriali. Tutte minacce che richiedono un’attività di coordinamento per la condivisione di informazioni utili ad aiutare i responsabili politici della regione ad intervenire sull’evoluzione della società ed elaborare le strategie per la protezione di quella casa comune che è l’ambiente.
Verso nuove scoperte
Un altro obiettivo del centro è identificare le mutazioni genetiche che spiegano come mai i coralli del Mar Rosso sopravvivano alle alte temperature e resistano agli effetti della decolorazione indotta dal riscaldamento globale sulle barriere coralline in altre parti del pianeta. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), circa un quinto delle barriere coralline del mondo è già andato distrutto, mente il 60 per cento è a rischio estinzione.
Le scoperte scientifiche riguardo al patrimonio genetico dei coralli del Mar Rosso rese possibili dal nuovo centro di ricerca potrebbero rendere i coralli di altre regioni del mondo simili a quelli del Mar Rosso, più resistenti al riscaldamento globale. «Ciò significa che il mondo potrebbe disporre di un pool di coralli sani che potrebbero essere utilizzati per ricostituire le riserve di corallo morenti in altre aree del Pianeta e non in grado di resistere ai cambiamenti climatici in atto», annota il quotidiano Haaretz. Pensiamo in particolare alle acque dell’Oceano Indiano o del Pacifico.
Per condurre i suoi studi, il Centro si avvarrà delle piattaforme di ricerca esistenti nei diversi Paesi partner, tra cui l’Istituto interuniversitario di Scienze marine di Eilat (Israele), la Stazione di Scienze marine della Giordania, nel Golfo di Aqaba, e le infrastrutture di ricerca dell’Università Re Abdullah per le Scienze e la Tecnologia, in Arabia Saudita. Verranno inoltre create nuove stazioni di monitoraggio. L’area di ricerca si estenderà per 2.000 chilometri di costa e 14.500 chilometri di barriere.
Il biologo israeliano Maoz Fine spera che il Centro di ricerca venga emulato da altri progetti di ricerca che richiedono l’alleanza dei Paesi della regione. «Penso – chiosa il biologo marino – che sia questa la ragione di fondo che ha motivato la partecipazione degli svizzeri. Stanno studiando l’idea di “diplomazia per la scienza, scienza per la diplomazia”, che potrebbe in effetti risultare utile per le relazioni diplomatiche nella regione».