Il 3 giugno scorso è stato depositato alla Corte penale internazionale dell’Aia un esposto che accusa i responsabili politici dell’Unione Europea e degli Stati membri di «crimini contro l’umanità», per aver causato la morte di migliaia di migranti in fuga dalla Libia attraverso il Mar Mediterraneo. Le argomentazioni sono esposte in un documento di 245 pagine predisposto da Juan Branco, avvocato e giornalista che ha collaborato in passato con la Corte penale internazionale, e Omer Shatz, avvocato israeliano che insegna Scienze politiche a Parigi. Si sostiene che gli Stati europei abbiano messo in atto politiche volte a ridurre il numero di arrivi di migranti forzati, a partire dalla cosiddetta «crisi dei rifugiati», a qualunque costo, pur essendo pienamente consapevoli che esse avrebbero causato la morte di moltissime persone.
Soccorsi ridotti nonostante il pericolo
Un passaggio cruciale è stata la decisione di interrompere l’operazione italiana Mare Nostrum, che da ottobre 2013 ha salvato da morte certa 150.810 migranti. A partire da ottobre 2014 essa è stata sostituita dall’operazione Triton dell’agenzia europea Frontex, con un raggio d’azione molto minore e meno mezzi navali impiegati. Ufficialmente si è sostenuto che tale scelta avrebbe ridotto il numero di vittime, ma in realtà si è verificato il contrario: il numero di morti è stato 30 volte superiore. Non si è trattato, però, di un effetto imprevisto. Un rapporto interno dell’agenzia Frontex del 28 agosto 2014 affermava infatti che tale riduzione, se non integrata da altre misure, avrebbe verosimilmente provocato «un numero di incidenti più alto». Nonostante questo, si procedette alla sostituzione e, tra il 22 gennaio e l’8 febbraio 2015, si registrarono 365 vittime al largo della costa libica. 29 di queste persone morirono per ipotermia dopo essere state soccorse, durante il trasporto verso Lampedusa a bordo di un’imbarcazione inadeguata, che impiegò 12 ore per arrivare in porto. Tra il 12 e il 18 aprile 2015, in due successivi naufragi, persero la vita 1.200 persone.
Respingimenti fatali
Un secondo punto dell’atto d’accusa riguarda i respingimenti in Libia. L’esposto stima che circa 40 mila migranti siano stati esposti a esecuzioni, torture e altre sistematiche violazioni dei diritti umani in campi di detenzione gestiti dalle milizie libiche, come diretta conseguenza delle politiche di esternalizzazione europee. La Corte penale internazionale, peraltro, sta già indagando sui crimini commessi durante la guerra civile in Libia, incluse le gravi violenze che hanno interessato i migranti in transito nel Paese. Anche in questo caso, si sostiene che gli Stati membri, pur essendo pienamente consapevoli delle carenze nella sicurezza e nel rispetto dei diritti umani in Libia, ampiamente denunciate e documentate da rapporti delle Nazioni Unite e di diverse organizzazioni internazionali per i diritti umani, hanno consapevolmente deciso di continuare a collaborare con le milizie per contenere il flusso migratorio.
L’Unione Europea e l’Italia hanno fornito mezzi e informazioni grazie ai quali i libici hanno potuto intercettare i gommoni e abbordarli, anche usando la violenza, al fine di riportare nei centri di detenzione libica i migranti soccorsi in mare. Le autorità europee avrebbero privilegiato la guardia costiera della Libia «nell’intercettazione e nel respingimento illegale dei migranti» attraverso la creazione della Zona di ricerca e salvataggio (Sar) libica e impedendo di fatto l’intervento delle ong nelle operazioni di soccorso.
La parola alla Corte
La presentazione della denuncia è solo il primo passaggio: prima che parta una vera e propria inchiesta, i giudici dell’Aia dovranno acquisire la denuncia e deliberare per un avvio del procedimento penale, salvo che non si opponga il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Non c’è quindi certezza che i capi di Stato e i ministri ritenuti responsabili (la Corte non ha giurisdizione sugli Stati, ma sulle persone fisiche) siano effettivamente chiamati a rispondere personalmente delle conseguenze di politiche ciniche e condivise che continuano ormai da cinque anni. È però importante che, alle numerose denunce delle agenzie delle Nazioni Unite, di organizzazioni umanitarie e di giornalisti, si sia oggi aggiunto un atto formale. La gravità dei fatti descritti nel documento, tutti pubblici e già noti, è sotto gli occhi di tutti, ma in questi anni ha sempre finito per perdersi nel rumore degli slogan dei governi, più o meno populisti, di tutta Europa e nella confusione di una comunicazione che sempre più spesso più che informare intrattiene e distrae.