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Onu e Libia, gli embarghi aggirati per armare Haftar

Fulvio Scaglione
14 maggio 2019
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Come ha fatto il generale Khalifa Haftar a creare un esercito efficiente in Libia in barba agli embarghi Onu? Chi lo ha finanziato e armato? In ossequio a quali interessi?


Nel febbraio del 2011, quando l’offensiva interna ed esterna si apprestava a rovesciare Muhammar Gheddafi, l’Onu decretò un embargo totale dell’esportazione in Libia degli armamenti e delle attrezzature militari, ovviamente per indebolire il regime del Colonnello. Nel settembre dello stesso anno, e poi nel marzo del 2013, le Nazioni Unite, con due diverse risoluzioni, alleggerirono l’embargo, consentendo però solo l’esportazione di armi non letali, attrezzature tecniche e denaro. Domanda: allora come ha fatto il generale Khalifa Haftar, da settimane all’offensiva contro il governo di Tripoli guidato da Fayez al-Sarraj, l’unico governo riconosciuto anche dall’Onu, ad ammassare un simile esercito?

Quella di Haftar, infatti, è una vera armata, qualcosa di molto diverso dalle formazioni militari espresse da questa o quella tribù. Non a caso, e con una certa ragione, si chiama e si fa chiamare Esercito nazionale libico. Haftar può disporre di un nucleo stabile di circa 25 mila uomini: 7.500 soldati di professione, in gran parte reduci dell’esercito di Gheddafi, più 12 mila miliziani (tra i quali vi sono unità di mercenari del Sudan e del Ciad) e alcune migliaia di uomini delle Brigate Zintan, che a suo tempo furono in prima linea nell’attacco a Gheddafi. A questi uomini si aggiungono, nelle diverse circostanze e in quantità variabile, combattenti forniti dalle tribù del Sud della Libia, da tempo alleate di Haftar.

A questi soldati, miliziani e combattenti vari dev’essere corrisposto un salario, al quale provvedono le capaci casse dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti. Poi bisogna loro dare le armi giuste.

Da questo punto di vista il momento decisivo, per Haftar, è venuto nel 2014. In quell’anno il generale vara la cosiddetta Operazione Dignità e si lancia all’attacco dei gruppi islamisti, Isis in primo luogo, attestati intorno alla città di Bengasi. Questa operazione lo “sdogana” agli occhi dei governi occidentali, che vedono con sollievo la sconfitta del Califfato in territorio libico.

Il 2014 è anche l’anno in cui i governi di Tripoli e di Tobruk (che appoggia Haftar) si spartiscono i resti dell’aviazione libica. Al generale va così la maggior parte dei caccia Mig un tempo appartenuti a Gheddafi, più la maggior parte dei piloti e otto elicotteri da combattimento (cinque russi e tre sudanesi).

Da allora le violazioni all’embargo e alle limitazioni teoricamente imposte dall’Onu non si sono più contate. L’Egitto fornisce ad Haftar sette caccia Mig e otto elicotteri, più una gran quantità di munizioni e pezzi di ricambio. Gli Emirati Arabi Uniti provvedono con altri quattro elicotteri. Poi cominciano ad arrivare i droni, gentile omaggio degli Emirati e dell’Iran. E la Russia si mette a disposizione per l’assistenza tecnica all’aviazione dell’Esercito nazionale libico.

I Mig e gli elicotteri recuperati dagli arsenali gheddafiani (oltre a quelli citati, anche quelli ritrovati nelle basi di Al-Abrak e Al-Woutiya) sono dei vecchi arnesi esposti a frequentissimi guasti. Così pure i velivoli forniti dall’Egitto che li pesca tra quelli dismessi dalla propria aviazione. La necessità di controlli e di ricambi è enorme e Haftar non potrebbe farcela da solo. L’Egitto, a propria volta, provvede all’addestramento di piloti e tecnici. L’armata di Haftar, infine, è dotata anche di una sua Marina. Qui molto hanno contribuito i francesi, da anni generosi anche nel fornire armi e consiglieri militari.

Questa situazione parla molto chiaro sotto diversi aspetti. Ci dice dell’ipocrisia con cui molti, troppi Paesi, aderiscono alle risoluzioni Onu già sapendo che le violeranno ed esaltano le istituzioni internazionali ben sapendo che le ignoreranno appena l’interesse nazionale entrerà in gioco. E ci dice anche dell’impotenza delle stesse Nazioni Unite, troppo deboli di fronte a certi interessi di parte di cui esse stesse, di volta in volta, sono complici.

L’embargo del 2011 contro la Libia di Gheddafi era congegnato per favorire la guerra e il cambio di regime decisi da Francia e Regno Unito, insieme con gli Stati Uniti. Guerra che non aveva lo scopo di portare alla democratizzazione del Paese, ma solo di favorire un’operazione neocoloniale per la spartizione delle ricchezze energetiche del Paese e per lo sfruttamento della sua posizione strategica. Infatti, adesso quegli stessi Paesi se ne infischiano della democrazia e del fatto che il governo di Al-Sarraj sia l’unico riconosciuto e appoggiano la campagna militare di Haftar. Dell’Onu si prendono ora gioco gli interessi perversi che le stesse Nazioni Unite avevano favorito e protetto.


 

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Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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