Abbiamo lasciato Ramla il 4 ottobre a mezzanotte. (…) Il nostro drappello era composto dal capo arabo, dal dragomanno di Gerusalemme, dai miei due domestici e dal beduino di Giaffa, che conduceva l’asino carico di bagagli» (F. R. de Chateaubriand, Viaggio a Gerusalemme, Edizioni Terra Santa, 2018, p. 19). Pellegrino in Terra Santa a inizio dell’Ottocento, Chateaubriand non poté fare a meno dei servigi di un dragomanno. Derivato dall’arabo tarǧumān (interprete), divenuto in italiano turcimanno, il dragomanno era un autoctono poliglotta che accompagnava i visitatori in Medio Oriente fin dal loro sbarco a San Giovanni d’Acri, Giaffa o Gaza.
Fra Liévin de Hamme, nella sua Guida indicatrice dei santuari e luoghi storici di Terra Santa (1870), dà questo consiglio: «Il miglior modo di viaggiare in Oriente è di assumere un solo uomo che faccia contemporaneamente da guida e interprete e si incarichi di procurare tutto il necessario». Quest’uomo è il dragomanno. Tale figura fece la sua comparsa con la prima Crociata. All’inizio dell’XI secolo, solo una ristretta élite in Europa poteva esprimersi in arabo (i domenicani saranno tra questi; impararono la lingua predicando nella penisola iberica, all’epoca sotto la dominazione dei saraceni). Ma la stragrande maggioranza dei crociati non conosceva l’arabo quando sbarcò, conquistò e poi governò la Terra Santa. Nel 1309 Jean de Joinville nella sua Vita di san Luigi menzionava quelle «persone che conoscono il saraceno e il francese, che chiamano dragomanni». Funsero da intermediari, ad esempio, nella trattativa per il rilascio di Pietro di Bretagna, prigioniero dei musulmani. Era il 1250. Lo stesso anno, un trattato di pace (e commerciale) tra la Repubblica di Genova e il re di Tunisi citava dei torcimania, che potremmo tradurre proprio con «dragomanni». La comparsa di questi interpreti è legata anche a necessità diplomatiche.
La conquista di San Giovanni d’Acri da parte dei Mamelucchi nel 1291 segna il crollo definitivo del dominio crociato (e delle sue istituzioni) in Palestina. Per quasi due secoli, i rapporti tra Occidente cristiano e Oriente islamico sono quasi inesistenti e i pellegrinaggi oltremodo rari. Venezia introduce una novità con l’invio di un bailo, ambasciatore permanente presso l’Impero ottomano.
I diplomatici occidentali, così come i mercanti, assumono dei dragomanni per superare la barriera linguistica. Nel 1516 quattro maroniti entrano al servizio dei francescani con questo ruolo. Delle linee di discendenza dei dragomanni che lavorarono presso i frati minori fino al XVIII secolo si conserva ancora traccia.
Per primi vennero reclutati i levantini cattolici, discendenti dei mercanti genovesi, veneziani o ciprioti stabilitisi da diverse generazioni in Palestina ma considerati ancora cittadini europei dagli ottomani. Anche gli ebrei sefarditi, espulsi dalla Spagna dopo la presa di Granada nel 1496, furono «arruolati» presso le ambasciate occidentali. Autoctoni, generalmente cristiani, potevano ugualmente assolvere alla funzione in caso di necessità, ma la scarsa lealtà nei confronti degli occidentali e la conoscenza spesso approssimativa delle lingue europee ne facevano dei partner poco affidabili.
Il mestiere si specializza
Per colmare questa lacuna, Venezia assunse fin dal 1551 dei «giovani di lingua», giovani veneziani inviati a Costantinopoli per essere introdotti ai diversi idiomi parlati nell’impero. Nel 1669 Colbert, allora Controllore generale delle Finanze del regno di Francia, ricevette due memorandum dal console di Aleppo e dall’ambasciatore di Costantinopoli che stilavano un cupo ritratto della situazione commerciale francese in Medio Oriente. Il declino veniva attribuito alla pessima qualità e agli abusi dei dragomanni locali. Il grande ministro di Luigi XIV, perciò, il 18 novembre 1669 decise l’istituzione della scuola dei Jeunes de langue. In un secolo e mezzo, circa 70 giovani francesi impararono dai cappuccini di Costantinopoli il turco, l’arabo e il persiano. Come esercizio, gli studenti traducevano opere orientali, che andavano poi ad arricchire la biblioteca reale. Successivamente erano inviati presso le ambasciate d’Oriente ad affiancare i diplomatici. Impiegati come traduttori e rappresentanti, rivestivano anche una funzione diplomatica vera e propria, dato che dovevano commentare i messaggi dei funzionari francesi e convincere i loro interlocutori ottomani.
Al servizio dei pellegrini
Nell’Ottocento il pellegrinaggio in Terra Santa torna ad affascinare. Dopo le meraviglie dell’Egitto faraonico, gli europei ritrovano interesse per i luoghi santi di Palestina. Sulle orme dei romantici pellegrini solitari di inizio secolo, cominciano ad arrivare gruppi di pellegrini europei (e anche canadesi). Gli accenni ai dragomanni, pertanto, si moltiplicano nei racconti di pellegrinaggio così come nelle guide. Nelle lettere scritte alla fine del XIX secolo in occasione di un viaggio, il sacerdote canadese (del Québec) Henry Raymond Casgrain, riferendosi al suo dragomanno, afferma che ha qualcosa «di Sancio e allo stesso tempo di Gil Blas», due servitori fedeli, ma birboni e volgari, della letteratura picaresca del Settecento. Dal contratto stipulato al porto di sbarco con il dragomanno, poteva dipendere tutta l’organizzazione del viaggio. Poteva addirittura svolgere funzioni di guardia del corpo se il pellegrino finiva per essere importunato da ladri o banditi.
Il ritorno dei dragomanni fu breve. Con la dissoluzione dell’Impero ottomano nel 1918, questa figura scompare, rimanendo circoscritta a un solo luogo: il Santo Sepolcro che, in virtù dello Status quo, vive ancora secondo i ritmi del XIX secolo.
Lʼultimo dragomanno
Jeries Majlaton è il dragomanno dei francescani del Santo Sepolcro. Un ingranaggio essenziale al buon funzionamento dello Status quo.
«Ho cominciato a lavorare qui nel 2001 – spiega –aiutando i preti in sacrestia. Quando il precedente dragomanno se n’è andato, ho preso il suo posto». E così oggi lavora a tempo pieno nella basilica. Come i dragomanni di un tempo, Jeries è un negoziatore. «Il mio compito principale in quanto dragomanno – spiega – è di vegliare sul rispetto dello Status quo». Sorveglia i tempi e gli spazi in virtù dei diritti statutari e tra i suoi compiti vi è il controllo del loro rispetto da parte dei religiosi che si avvicendano nel luogo più sacro del cristianesimo. Dirige la squadra di addetti alla basilica, aiuta nella preparazione della Settimana Santa e presenzia alle celebrazioni più importanti. Parte del suo tempo, inoltre, lo dedica a incontrare i religiosi che si spartiscono la custodia della Tomba vuota, siano frati francescani o esponenti delle altre confessioni.
Per poter svolgere il proprio incarico, Jeries è poliglotta. «La mia lingua madre è l’arabo. Parlo molto bene l’inglese. Ho imparato l’italiano lavorando con i francescani, e conosco un po’ di francese e di ebraico. «Bisogna essere pazienti ed essere cauti, soprattutto nei confronti delle altre comunità», confessa. Il rispetto degli altri è indispensabile: requisito essenziale per mantenere buoni rapporti con tutte le confessioni presenti al Santo Sepolcro.
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