«Il Documento sulla Fratellanza Umana è un testo di portata storica: apre una pagina nuova nelle relazioni tra cristiani e musulmani. Bisogna diffonderlo capillarmente». Con queste parole mons. William Shomali (68 anni), vescovo ausiliare del patriarcato latino di Gerusalemme e dal 2017 vicario patriarcale per la Giordania, inizia a commentare il testo firmato il 4 febbraio scorso ad Abu Dhabi da papa Francesco e da Ahmed Al-Tayyeb, grande imam dell’università egiziana di Al-Azhar.
Quali aspetti del Documento l’hanno colpita maggiormente?
Anzitutto mi ha colpito il fatto che il testo abbia un’intonazione positiva: non guarda al passato e alle tensioni tra cristiani e musulmani del tempo antico, ma è volto al presente e al futuro, sollecita cristiani e musulmani a lavorare insieme per edificare pace e giustizia e a tutelare la dignità di alcune categorie di persone particolarmente vulnerabili: le donne, i bambini, gli anziani, i deboli, i disabili, gli oppressi. Reputo molto importanti le affermazioni riguardanti la libertà di culto. La libertà di coscienza non viene citata in modo chiaro, ma si coglie implicitamente, fra le righe. Inoltre, viene preso in esame il concetto di cittadinanza, la quale, è scritto, «si basa sull’eguaglianza dei diritti dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranza, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità». Questa affermazione è di enorme rilievo sia per le minoranze cristiane che vivono in Oriente sia per quelle musulmane che risiedono in Occidente.
Nel Documento si afferma che il nome di Dio non può essere usato per giustificare la violenza: è un’affermazione generalmente condivisa dal popolo giordano?
Sì. Il re e il governo hanno condannato con affermazioni inequivocabili lo Stato islamico (Isis), le nefandezze che ha commesso e, più in generale, la violenza compiuta in nome di Dio. Il popolo condivide queste condanne e ha preso le distanze dai terroristi dell’Isis, considerati scismatici poiché hanno mal compreso e mal interpretato i testi coranici.
Quali ripercussioni pensa avrà il Documento in Giordania?
Ritengo che porterà frutto solo se sarà diffuso, studiato, applicato. Sino ad oggi è stato donato alle più alte autorità dello Stato e presentato al popolo durante alcuni incontri: io stesso ho partecipato a due conferenze: la prima presso un’università, alla presenza però di un numero esiguo di studenti, e la seconda presso l’Istituto reale per il dialogo interreligioso. È necessario fare molto di più. A mio giudizio dovrebbe diventare materia di insegnamento nelle scuole, nelle università e nei percorsi di formazione religiosa dei bambini, sia cristiani sia musulmani. Sarebbe anche interessante presentarlo aggiungendo citazioni della Sacra Scrittura e del Corano, affinché i fedeli delle due religioni possano conoscere le fonti relative ai temi trattati.
E quali ripercussioni potrà avere nella regione mediorientale?
Penso che avrà ripercussioni positive solo a condizione che anche nei Paesi della regione il testo sia conosciuto e studiato nelle scuole e nelle università. Ma occorre che vi sia la volontà di compiere tali passi. Questa è la sfida: cambiare la mentalità di coloro che guardano con diffidenza a chi professa una religione diversa dalla propria e non sono interessati a diffondere questo Documento e i princìpi che lo animano. Un primo passo che è possibile compiere subito è cominciare almeno a studiarlo nelle commissioni di dialogo interreligioso istituite nei diversi Paesi.
Ritiene che in questo tempo le religioni possano svolgere un ruolo decisivo nell’edificazione della giustizia e della pace fra i popoli?
Sì. Il Documento di Abu Dhabi, indicando un nuovo cammino da percorrere, ha voluto mettere in evidenza i semi buoni delle due religioni; semi che, se coltivati e diffusi, possono diventare fattori decisivi per l’edificazione di società coese, giuste e pacifiche. Occorre tener presente che nel mondo islamico vi sono autorità religiose che stanno iniziando a coltivare la disciplina – nuova per loro – dell’interpretazione della parola sacra: cominciano ad affermare che essa deve essere letta tenendo conto del contesto storico nel quale è stata pronunciata, e ciò include, ad esempio, i versetti del Corano che invitano alla guerra. In Giordania – ed è un segnale estremamente promettente – l’Istituto reale per il dialogo interreligioso ha pubblicato in arabo due encicliche riguardanti proprio l’interpretazione della parola rivelata, la Providentissimus Deus di Leone XIII e la Divino afflante spiritu di Pio XII: la traduzione è stata affidata a uno studioso musulmano mentre io sono stato incaricato di fare la revisione dei due volumi. Un segnale parimenti promettente è il discorso pronunciato all’università di Al-Azhar dal presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi, il quale ha auspicato un «nuovo discorso religioso», affermando che non si può leggere il testo sacro nella prospettiva del passato.