Lo scorso 4 aprile, frère Alois, priore di Taizé, è stato ricevuto in Vaticano da papa Francesco. Al centro del loro colloquio anche l’esito dell’incontro internazionale ecumenico dei giovani avvenuto a Beirut lo scorso 22-26 marzo, organizzato dalla comunità di Taizé e dal Consiglio delle Chiese del Medio Oriente, definito dallo stesso frère Alois «un pellegrinaggio di fiducia con tutte le Chiese in Libano» e che ha avuto una straordinaria partecipazione di giovani provenienti dal mondo arabo, dalla Siria – da Damasco, Aleppo, Homs – ma anche dalla Palestina, dall’Iraq, dalla Giordania e dall’Egitto. Assieme a loro quasi 400 giovani europei – che non hanno voluto mancare al primo incontro ecumenico di Taizé in un Paese mediorientale – e, naturalmente, tanti libanesi.
Abbiamo incontrato alcuni di quei giovani, colpiti dalla naturalezza con cui cristiani, di varia confessione, e islamici, sia sunniti che sciiti, hanno pregato insieme.
«A volte pensiamo di essere divisi dalla teologia e dalla cultura religiosa o politica – ha sottolineato Jérôme, 26 anni, calvinista di Ginevra –. Taizé ha ben compreso che per pregare assieme dobbiamo imparare prima di tutto ad essere persone capaci di condividere la cultura e l’amicizia: solo con questi valori possiamo sperare in una riconciliazione reciproca e vivere una sola fede, diversa solo nel culto».
«Non è difficile pregare assieme – ha fatto eco la libanese Zeinab, 24 anni, musulmana – perché quando mi sono seduta nel grande padiglione del Seaside Arena (dove si è svolto l’incontro – ndr) e ho ascoltato i testi delle canzoni cristiane, io musulmana, mi sono chiesta in cosa erano diversi dai nostri canti. Certo, cambia l’ambientazione, ma tutti noi parliamo allo stesso Dio».
Pragmatico, invece, il commento di Mohammed, 31 anni, anch’egli libanese e musulmano, abituato alla pluralità di confessioni, «vivere in un Paese come il nostro, che ha diciotto confessioni riconosciute, è una sfida. Ed è una sfida difficile che deve tener conto della diversità, che dobbiamo accettare se vogliamo vivere assieme, ma spetta a ciascuno di noi – a me in prima persona – vedere la diversità come una ricchezza e non come una negatività, e questo è lo spirito di Taizé».
Moltissimi giovani, tra gli oltre 2.700 partecipanti, erano libanesi, appartenenti a tutte le confessioni presenti nel Paese dei Cedri. Giovani le cui famiglie hanno vissuto quindici anni di guerra civile (1975-1990). Essi stessi, poi, stessi hanno conosciuto e vissuto, per altri quindici anni, la pressante presenza siriana.
Per molti aspetti, questo incontro ecumenico dei giovani è stato un evento storico: lo spirito di Taizé rimarrà in Libano? Aiuterà a costruire il futuro dei giovani?
È ancora Mohammed a rispondere: «È una sfida essere diversi, anche gli europei la stanno vivendo con persone provenienti da altri contesti, come i musulmani; ci sono vari problemi perché gli europei non sanno come rapportarsi con i musulmani, così spero che l’esperienza di questo incontro possa essere una buona occasione per comprendere che si può vivere in pace, nell’accettazione e tolleranza reciproca. In Libano, i giovani hanno bisogno di essere rafforzati in questa convinzione: si può essere diversi nell’unità. Taizé è un’occasione immediata per ricordarlo: spetta a noi metterlo in pratica».
Il tema della diversità che, in questo caso, assume il nome di minoranza religiosa, è stato affrontato anche da Evette, 28 anni, di Amman, cattolica in un Paese, la Giordania, dove i cristiani complessivamente non raggiungono il 4 per cento della popolazione: «È molto difficile essere minoranza, ma siamo uniti tra noi, ci aiutiamo l’un l’altro, c’è molta solidarietà. E, anche se all’interno della nostra comunità non tutti lo comprendono, soprattutto i più anziani, tra noi giovani c’è apertura, ci occupiamo degli altri senza preoccuparci della religione professata, ma solo dei loro bisogni. Il nostro Paese versa in condizioni difficili, molto critiche, e la vera sfida per noi giovani è quella di non perdere la nostra umanità, dimenticando gli altri…».
Cosa può insegnare l’esperienza di Taizé a un giovane del Medioriente? «Che è bello stare insieme e guardarsi negli occhi senza pregiudizio. Cristiani, musulmani, tutti insieme… Siamo giovani, dobbiamo portare l’energia attinta da questa esperienza nei nostri Paesi e farla crescere. Siamo stanchi di vivere in mezzo a conflitti di cui non conosciamo più neanche le cause…», ha concluso amaramente Evette.
«Posso raccontare la mia esperienza personale – è intervenuta Zeinab. La prima volta che sono andata a Taizé, al momento della partenza, ero molto preoccupata perché volevo portare con me tutti i valori espressi dalla comunità di Taizé e viverli insieme a tutti, a casa, in Libano. Poi, con realismo, mi sono detta ‘questo non è possibile, a casa ti aspetta un’altra realtà: è stato bello, ma il sogno finisce qui’; invece, tornata a casa, quei valori erano sempre dentro di me, la voglia di aprirmi all’altro non mi ha più abbandonato, ho cominciato a parlarne agli amici, ho rotto io per prima la barriera verso gli altri, anche di altra fede, e così, quello che ho imparato a Taizé, ho cercato di applicarlo alla mia vita reale, contagiando anche qualche amico…».
Molte e varie sono le strade personali che hanno portato giovani dal Libano, dalla regione mediorientale e da vari Paesi europei a Beirut, accomunate – tuttavia – da una fede sincera e gioiosa.
«Sono musulmano praticante – ha detto Mohammed – e vivo con intensità le preghiere e i digiuni. Anche incontrare gli altri è un modo di pregare. Sono insegnante e la mia missione è quella di aver cura dei miei studenti, è parte della mia fede. Così, quando incontro persone di altre religioni o che hanno bisogno di me, li aiuto perché questo significa vivere la mia fede: essere un buon cittadino fa parte del mio credo».
«Cerco di vivere la mia fede tra le persone della mia stessa religione – è stato il commento di Zainab – con rispetto e devozione, ma cerco sempre la verità anche con gli altri, non importa se musulmani o meno. Mi sono sempre interessata al dialogo interreligioso, perché confrontarsi con gli altri sulle nostre esperienze, lotte, desideri ci arricchisce. Parlare con gli altri di religione, di Dio in una prospettiva più ampia ci fa sempre imparare qualcosa in più su noi stessi e ci educa all’accoglienza dell’altro».
«Ho imparato che si può raggiungere Dio ovunque: in chiesa come in moschea, meditando o cantando. Dio è sempre con noi – ha confidato Evette, affidando l’ultimo pensiero a Jérôme –. Spesso le persone hanno difficoltà a comprendersi perché non mangiano assieme, sono amici ma non parlano tra loro, non vogliono correre il rischio di fidarsi l’uno dell’altro. A Beirut ho avuto la sensazione di essere stato invitato per quello che sono, anche se non mi fido dell’altro, con tutti i miei pregiudizi, perché qui ho potuto accettare la sfida di ascoltare l’altro senza giudicare e senza essere giudicato. Sono calvinista, la mia fede aveva bisogno di immergersi nell’altro…».