Il premio Oscar, americano di origini egiziane, migliore attore 2019 per Bohemian rhapsody nei panni di Freddy Mercury, istrionico rock-leader dei Queen. Fiero delle sue origini, Malek è più copto o più egiziano?
Tutti pazzi per Rami Malek, il premio Oscar americano di origini egiziane, migliore attore 2019 per Bohemian rhapsody nei panni di Freddy Mercury, istrionico rock-leader dei Queen.
Epperò, come era ovvio, in Egitto tutti sono pazzi per Rami Malek, ma fino a un certo punto. Non solo perché la sua fenomenale interpretazione di un’icona del mondo gay fa storcere la bocca a molti, ma perché le sue dichiarazioni di nazionalismo, secondo alcuni, fanno a pugni con la difesa a oltranza del presidente Abdel Fattah al-Sisi e riaccendono le rivalità sociali tra musulmani e copti. Tutto è cominciato con il discorso pronunciato la serata degli Oscar: «Sono figlio di immigrati dall’Egitto. Sono la prima generazione americana della mia famiglia e parte della mia storia è ancora tutta da scrivere». La famiglia di Rami, infatti, è una famiglia di cristiani copti proveniente da Minya, famoso sito archeologico egiziano. E fin qui, nulla di strano. Tutt’altro: i fan hanno celebrato le sue dichiarazioni come un (buon) segno dei tempi. «È una bella cosa sapere che l’Oscar come migliore attore è andato a un arabo ed egiziano», hanno twittato. Ma presto sono arrivati i distinguo. Per un ampio numero di persone che ne celebravano la sua arabicità e/o i suoi natali egiziani, altrettanti si sono sbracciati a ricordare che lui sarebbe – prima di tutto – copto, in un rigurgito di orgoglio minoritario ma, allo stesso tempo, nazionalista. Così Rami Malek è tirato per la giacchetta dai nazionalisti arabi, egiziani e copti e questa cosa – sottolinea su Twitter il commentatore Mohammed al-Dashan – «è tenera in modo patetico». Al punto che, la rivendicazione da più parti, che in sé è molto divertente, ha almeno due vantaggi: riprendersi, sotto il profilo dell’identità nazionale, la paternità di un attore di enorme talento e catalizzare su un prodotto cinematografico un orgoglio nazionale – quello egiziano – ormai molto sbiadito e frammentato.
Perché qui sono tutti pazzi di Rami Malek, ma tutti anche lo rivendicano come l’unico e irripetibile scarrafone che è certamente bello, solo e soprattutto, a mamma soja’.
Perché Diwan
La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.
Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.
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Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen). È corrispondente da Sana’a per varie testate straniere.
Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu). Cura il programma Cous Cous Tv, sulle televisioni nel mondo arabo, per TV2000.
Ha girato, autoprodotto e venduto otto video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).