Una rara iscrizione in greco del 300 d.C., insieme ai resti di una chiesa bizantina e di un bagno pubblico. Sono le ultime risultanze del lavoro degli archeologi nel sito dell'antica Elusa.
(c.l./g.s.) – È piuttosto raro rinvenire il nome di un’antica città impresso nelle sue rovine. Una scoperta simile è stata fatta nelle ultime settimane nel deserto del Neghev, circa venti chilometri a sud-ovest di Beer Sheva, nel parco nazionale di Halutza, dove è venuta alla luce una pietra con un’iscrizione risalente a 1.700 anni fa che menziona la città con il suo nome greco: Elusa. Il reperto è ora stato affidato all’epigrafista Leah Di Segni, dell’Università ebraica di Gerusalemme, per ulteriori studi e approfondimenti.
Il nome Elusa è menzionato in diverse fonti storiche. Appare in particolare nel mosaico della Mappa di Madaba, in Giordania (VI secolo d.C.) e nella collezione di papiri del VI e VII secolo d.C. di Nitzana, città situata anch’essa nel deserto del Neghev, vicino al confine con l’Egitto. L’iscrizione ritrovata è «la prima prova archeologica del nome del sito stesso», ha dichiarato in un comunicato del 13 marzo 2019 l’Autorità israeliana per le antichità insieme all’Autorità per la natura e i parchi.
Inoltre, si legge nella dichiarazione, l’iscrizione menziona anche diversi Cesari della Tetrarchia, cosa che consente di datarla intorno al 300 d.C. In effetti, la Tetrarchia fu una riorganizzazione nel governo dell’Impero Romano introdotta da Diocleziano alla fine del III secolo d.C. Due Cesari vennero designati come vice imperatori dei due Augusti (d’Occidente e d’Oriente). Il sistema si incrinò ben presto, a partire dal 306 d.C., e non durò a lungo.
Antico snodo commerciale e tappa per i pellegrini
Elusa fu fondata alla fine del IV secolo a.C. e divenne un fiorente snodo di scambi commerciali che faceva parte delle Vie dell’incenso, una rete di rotte commerciali che si estendeva per circa 2.000 chilometri dalla penisola arabica al Mediterraneo. Il tratto dell’antica strada del Neghev collegava Petra (nell’attuale Giordania) a Gaza. La città continuò a svilupparsi e raggiunse il suo apice, nel periodo bizantino, dal IV secolo alla metà del VI secolo d.C. «L’esportazione di vini di alta qualità dagli altipiani del Neghev in epoca bizantina era alla base della prosperità economica dell’intera regione», ha affermato Tali Erickson-Gini, archeologo dell’Autorità israeliana per le antichità che ha lavorato agli scavi.
Inoltre, dice lo studioso, Elusa «fu anche una tappa importante lungo il percorso seguito dai pellegrini cristiani in viaggio verso [il monastero di] Santa Caterina, nel sud del Sinai, ed è stata visitata da molti viaggiatori stranieri». Si noti che Elusa figura ancor oggi tra le sedi titolari della Chiesa cattolica (diocesi per lo più estinte attribuite figurativamente ai vescovi che non sono alla testa di una diocesi ancor oggi esistente).
L’attività della città sembra essersi spenta alla fine del VII secolo. Le pietre del sito vennero poi usate per le costruzioni ottomane di Gaza e Beer Sheva e per quelle che risalgono ai tempi del Mandato britannico, nella prima metà del Novecento. Abbiamo perciò a che fare con un sito archeologico ampiamente depauperato e mal conservato. Pochi resti sono visibili sulla superficie del terreno, mentre gran parte delle vestigia sono sepolte sotto la sabbia.
Eppure, racconta The Times of Israel, gli archeologi hanno voluto superare l’apparente «sterilità» del sito, convinti del suo potenziale. Gli scavi sono stati organizzati su un arco temporale di un triennio, nel quadro di un progetto guidato dal professor Michael Heinzelmann per conto dell’Università di Colonia (Germania), in collaborazione con l’Autorità israeliana per le antichità. Il progetto è stato finanziato dalla Fondazione tedesco-israeliana per la ricerca scientifica e lo sviluppo, con la partecipazione di studenti delle università di Colonia e di Bonn (Germania).
Un centro urbano prospero
I lavori hanno implicato una combinazione di metodi archeologici tradizionali e più moderni utilizzando nuove tecnologie per la mappatura del sito e la definizione del piano stradale della città antica grazie ai resti di portici ed edifici residenziali che, tra parentesi, presentano elementi di pianificazione e di costruzione tanto occidentali quanto orientali. Le indagini condotte con tecnologie innovative hanno permesso di «dimostrare l’esistenza sul posto di nove chiese, di un enorme peristilio (forse un mercato) e di almeno tre laboratori di ceramica», precisa il comunicato dell’Autorità israeliana per le antichità.
Durante l’ultima stagione di scavi (nelle settimane scorse), sono stati portati alla luce una chiesa bizantina e un bagno pubblico. La chiesa, a tre navate della lunghezza di 40 metri, comprendeva un’abside rivolta a Oriente, la cui volta era originariamente rivestita di un mosaico di vetro. La navata della chiesa era decorata con marmi.
Il bagno pubblico, a sua volta, ha le caratteristiche di un grande complesso urbano dotato di un calidarium (stanza calda) e di una fornace per riscaldare l’acqua. L’ipocausto – il sistema di riscaldamento a pavimento realizzato in epoca romana con tubi di ceramica – è ben conservato.
Il sito archeologico si trova attualmente all’interno di una zona militare e non è destinato ad essere aperto ai turisti. Eppure, al pari di Avdat, Mamshit e Shivta (tutte località del deserto del Neghev), Halutza è inserita, dal 2005, tra i beni Patrimonio dell’Umanità. Halutza è anche uno dei due siti che potrebbero corrispondere alla città biblica di Ziklag.
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