In un Paese non meglio identificato del Medio Oriente, un combattente islamico tiene prigioniero un giornalista italiano. Durante la prigionia, girano filmati da condividere sui social, per richiamare l’attenzione della Rete sulla «guerra santa» dell’Islam nei confronti dell’Occidente.
Il giornalista, capitato in quella regione quasi per caso, inseguendo forse uno scoop, ma più probabilmente cercando un senso per la propria vita (anche professionale), ha incontrato un frate francescano. Si scoprirà poi che il religioso è morto, offrendo la propria vita per salvare il giornalista. Prima però, in una lunga intervista video (i cui spezzoni compaiono su un grande schermo, in una sorta di flash-back cinematografico), il frate ha raccontato al giornalista l’episodio dell’incontro di Damietta tra san Francesco d’Assisi e il sultano al-Malik al-Kamil, nel 1219. Un incontro che apre una breccia tra le mura dell’inimicizia. E segna un modo nuovo di guardare all’altro, rispettandone la cultura, la fede e la ricchezza spirituale. Un evento che è prima di tutto un mutamento di prospettiva per san Francesco, che incontrando il sultano sull’altra riva del Mediterraneo, cambia soprattutto se stesso, e il suo modo di guardare all’«infedele». Non più un nemico, ma una creatura di Dio alla quale, per amore, arrivare addirittura a sottomettersi. Proprio dalla forza di questo amore totale, disinteressato e incondizionato, scaturisce la vera possibilità di Redenzione.
Hossein Taheri interpreta il terrorista islamico, Gabriele Parrillo il giornalista, e Hal Yamanouchi il frate francescano. Jihadista e giornalista, carnefice e vittima, mettono in scena il conflitto tra le derive fondamentaliste dell’Islam e i valori della religione del Profeta, ma anche le contraddizioni della civiltà occidentale, che ha ormai perso le sue radici cristiane. E che, alla stregua dell’Islam violento, ha smarrito la propria identità.
L’idea drammaturgica su cui si basa la rappresentazione è che l’incontro-scontro, profondamente drammatico, tra i due, determinerà un cambiamento in entrambi. Come a Damietta accadde per Francesco e il sultano, così il jihadista (aderente più all’ideologia islamica che non alla fede) e il giornalista (agnostico, anche se tormentato da qualche dubbio), dopo l’esperienza condivisa in quella angusta prigione non saranno più gli stessi. Al punto che, alla fine, non sarà ben chiaro chi sia il vero prigioniero… Perché le prigioni più arcigne sono quelle che incatenano l’anima.
Nel finale, dopo che il frate ha raccontato in video l’episodio della “perfetta letizia” francescana, come metafora del vero cambiamento del cuore a cui il credente deve tendere, la morte accomunerà vittima e carceriere. Sulle labbra di entrambi, all’inizio appena mormorata, poi sempre più forte, prima del latrare sinistro dei cani e del silenzio della morte, una preghiera all’unico Dio.
Prodotto da Teatro de Gli Incamminati, il testo (scritto da Angela Dematté, regia di Andrea Chiodi, musiche di Ferdinando Baroffio, scene di Matteo Patrucco, video di Teodoro Bonci del Bene e luci di Alberto Bartolini,) è tessuto su vari livelli drammaturgici e su diversi registri narrativi. Una scelta che lo rende intrigante, originale, denso, anche se non sempre fluido.
Francesco e il Sultano, che ha debuttato lo scorso 18 marzo a Milano al Teatro Rosetum, ha in ogni caso un merito: aiutare lo spettatore a smascherare uno dei seri rischi del nostro tempo: quello di trasformare la fede (tutte le fedi) in un’ideologia, dimenticando invece la novità di un incontro, quello con la persona di Cristo, il solo capace di farci assumere il rischio di «passare all’altra riva».