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Orfani e vedove, il lascito dei jihadisti d’Europa

Fulvio Scaglione
11 febbraio 2019
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Unione Europea e Russia devono fare i conti con le donne e i bambini degli estremisti che dai loro Paesi, negli anni scorsi, sono andati a combattere e morire in Siria. Che futuro li attende?


Mentre l’Europa discute sul rimpatrio dei cittadini francesi, inglesi, tedeschi, belgi e così via andati a combattere per il Califfato di Al Baghdadi e ora detenuti in Siria (soprattutto nel Rojava curdo) e in Iraq, la Russia di Vladimir Putin sta affrontando un problema ancor più particolare e delicato.

Secondo i dati diffusi da diverse fonti, circa 4.500 cittadini russi (per lo più originari delle Repubbliche del Caucaso) hanno raggiunto negli ultimi anni l’Isis, Al Nusra e diverse altre formazioni del terrorismo islamista. Secondo l’entourage di Ramzan Khadirov, il leader della Repubblica di Cecenia da cui sono partiti molti combattenti, almeno 2.000 tra vedove e figli di jihadisti sono attualmente detenuti in Iraq e in Siria.

Fonti del Cremlino, invece, nel gennaio del 2017 avevano annunciato che nelle carceri irachene, detenuti insieme con le loro madri, c’erano 115 bambini russi di età inferiore ai 10 anni, insieme con altri 8 ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 17 anni. Così è partita l’operazione di recupero. Un primo gruppo di 30 bambini è stato riportato a Mosca nel dicembre del 2018, mentre altri 27 bambini hanno ripreso la via della Russia nei giorni scorsi. Ad attenderli le famiglie d’origine dei genitori, e un periodo più o meno lungo di cure psicologiche per aiutarli a dimenticare gli orrori vissuti durante la guerra e l’indottrinamento subito al seguito delle milizie jihadiste.

Secondo i portavoce del ministero della Difesa dell’Iraq, i padrini di questi bambini e ragazzi sono tutti morti negli scontri con l’esercito iracheno, i reparti curdi o sotto i bombardamenti americani. Se l’informazione corrisponde a realtà, la sorte più drammatica tocca ora alle loro madri.

Molto spesso si tratta di ragazze siriane o irachene che hanno dovuto sposarsi per forza. Oppure di ragazze cecene, circasse, ingusce che hanno creduto di partecipare alla guerra santa e sono finite in un buco nel deserto con i loro bambini. Rimaste vedove e prese prigioniere, sono state condannate in prima istanza all’ergastolo. E ora vengono anche separate dai figli che, per la legge irachena, possono stare con le madri in carcere ma solo fino ai tre anni d’età. Uno degli infiniti e assurdi dolori che la follia jihadista ha prodotto in Medio Oriente e altrove.


 

Perché Babylon

Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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