Il 2019 negli Emirati Arabi Uniti è stato proclamato Anno della tolleranza. In quest'ottica si inquadra anche la recente visita del Papa. La tolleranza, però, non si applica a tutti. Di certo non vale per il Qatar e i suoi fan.
Relazioni pericolose. Sono quelle che interessano i Paesi del Golfo e passano soprattutto attraverso il campo da calcio, ormai diventato un agone da battaglia per non venire ai ferri corti fisicamente, eccetto che in Yemen, dove gli interessi regionali si scontrano su più livelli. L’ultima notizia viene dagli Emirati Arabi Uniti, il Paese che ha costruito la sua immagine globale intorno a un mix di coesistenza, lusso, tolleranza e parziale (o meglio, apparente) rilassatezza dei costumi.
In particolare, la recente visita di papa Francesco e la firma del documento congiunto sulla fratellanza tra il papa e l’imam di al-Ahzar – una tra le autorità religiose più rispettate e influenti del mondo sunnita – è stato il punto più alto raggiunto dalla comunicazione esterna degli Emirati, che puntano ad apparire come l’attore regionale più aperto all’Occidente e alle diversità, etniche e adesso anche religiose.
Peccato, però, che ci sia un tabù più forte di tutto questo, ossia la profonda rivalità regionale con il Qatar. Una rivalità che va al di là degli aspetti commerciali e che sta diventando un affaire tra Stati non indifferente, condito da operazioni di spyware, blocco di beni e movimenti, accuse reciproche che non sono destinate ad essere insabbiate nei dimenticatoi della storia. Così, chi dice Qatar negli Emirati dice danno, ed è quello che è successo a un cittadino inglese, arrestato per avere indossato una maglietta della squadra di calcio del Qatar durante una partita della coppa d’Asia (peraltro vinta in finale proprio dal Qatar ai primi di febbraio). L’uomo, Ali Issa Ahmad, 26 anni, è stato arrestato e picchiato dagli agenti ad Abu Dhabi, lo scorso 22 gennaio, durante una delle partite del torneo, quella che veniva giocata contro l’Iraq. Ascoltato dall’avvocato si è difeso sostenendo di non conoscere una legge vigente negli Emirati: chiunque mostri simpatia per il Qatar rischia fino a 15 anni di carcere. Il motivo risiede nei rapporti diplomatici tesissimi e nelle sanzioni, già attivate da Emirati, Arabia Saudita, Bahrein ed Egitto contro l’emirato qatariota, accusato di finanziare il terrorismo.
La vicenda del tifoso britannico ha avuto un evoluzione complicata, con l’amico di Ahmad, Amer Lokie, anche lui inglese da Wolverhampton e fan dell’Arsenal, arrestato, per avere tentato di giustificare Ahmad, con l’accusa di resistenze a pubblico ufficiale e attività di spionaggio; con una serie di tweet virali contro gli emiratini e il loro «anno della tolleranza»; e con relazioni ancora più tese con il Regno Unito che era appena riuscito a far liberare, dopo sei mesi di detenzione, il ricercatore di nazionalità britannica Matthew Hedges, accusato di essere una spia. Quindi, attenzione! Viaggiate con cautela negli Emirati, rispettandone le leggi. Questo è sì l’anno della tolleranza, ma soprattutto è l’anno della tolleranza zero nei confronti dell’emirato rivale.
Perché Diwan
La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.
Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.
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Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen). È corrispondente da Sana’a per varie testate straniere.
Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu). Cura il programma Cous Cous Tv, sulle televisioni nel mondo arabo, per TV2000.
Ha girato, autoprodotto e venduto otto video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).