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L’oro del Dhofar

Laura Silvia Battaglia
30 gennaio 2019
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Tra lo Yemen e l’Oman c'è una regione in cui da secoli e secoli si pratica l’arte impareggiabile della produzione del miele. Ora però anche questo sapere antico subisce molte minacce.


In quella zona senza soluzione di continuità paesaggistica e tribale tra lo Yemen e l’Oman che si chiama Dhofar, da secoli e secoli si pratica l’arte impareggiabile della produzione del miele. Impareggiabile perché questo è un miele impareggiabile, d’altura ma tropicale, ottenuto con tecniche antichissime, come lo scavo dell’alveare nel tronco di una palma, che crea un sapore unico ma protegge anche le api dal caldo estivo e dal freddo nella stagione invernale.

Il profumo del legno del tronco della palma permea il miele, che per questo è di una qualità e di un sapore del tutto particolari. Non solo. Anche la conservazione in Oman e Yemen non ha eguali al mondo: il prezioso liquido dorato, infatti, viene tradizionalmente imbottigliato dagli agricoltori in bottiglie di vetro riciclate di Vimto, una bevanda molto diffusa durante il mese del Ramadan nella penisola arabica.

Da qualche tempo, c’è allarme su questa produzione così pregiata. Perché – escludendo peraltro la variabile della guerra – che ha già falcidiato la produzione yemenita, in Oman il ricorso quasi sistematico ai moderni alveari, in legno o in plastica, ha portato a una maggiore produzione di miele, ma ha anche giustificato una nuova mentalità orientata alla produzione quantitativa e al denaro, a seguito delle nuove tecniche introdotte per la prima volta in Oman negli anni Settanta del Novecento. Così, la maggior parte dei 5mila apicoltori che operavano in tutto il Paese oggi optano per questo metodo economicamente più efficiente per mantenere gli alveari.

Secondo Ali al-Wahaibi, professore di apicoltura all’Università Sultan Qaboos, intervistato dalla testata Middle East Eye, «alcune delle nostre conoscenze collettive in termini di apicoltura tradizionale sono andate perse». Peggio ancora: gli apicoltori che cercavano un ritorno di investimento a breve termine hanno iniziato a importare su larga scala le api egiziane negli ultimi dieci anni. Sebbene siano più robuste delle specie autoctone, queste api trasportano nuovi tipi di parassiti e l’ibridazione definitiva con le specie dell’Oman costituisce una minaccia a lungo termine delle api native. «Il nostro ministero dell’Agricoltura non applica alcun regolamento per impedire che le api egiziane vengano importate in Oman», dice Wahaibi.

Come se non bastasse, il varroa, un parassita di api mellifere che si nutre della loro emolinfa, ha devastato le specie dell’Oman. E nessuna ricerca accurata è stata ancora condotta sulla diffusione geografica del parassita che però ha già fatto così tanti danni da avere decimato numerose colonie di api. A ciò si aggiunga il fatto che una significativa diminuzione delle precipitazioni piovane sta asciugando il terreno e riducendo la flora omanite, costringendo molti apicoltori a fornire alle api alimenti artificiali, come sciroppo o zucchero, alterando in questo modo, e sensibilmente, la produzione di miele, non solo in quantità ma anche in qualità. Anche nella “Svizzera del Golfo” – come viene spesso definito l’Oman – non è dunque oro tutto il miel che luccica.

 


  

Perché Diwan

La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.

Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.

Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen). È corrispondente da Sana’a per varie testate straniere.

Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu). Cura il programma Cous Cous Tv, sulle televisioni nel mondo arabo, per TV2000.

Ha girato, autoprodotto e venduto otto video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).

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