La Supercoppa Juve-Milan, che si gioca oggi in Arabia Saudita, ha aperto gli occhi di molti di noi sulla condizione delle donne saudite. I loro problemi sono ben altro che i posti da occupare sugli spalti di uno stadio.
Proprio oggi si gioca a Jeddah, in Arabia Saudita, la Supercoppa Juve-Milan, che, tra l’altro, mette la parola fine a una polemica, tutta italiana, scoppiata letteralmente sugli spalti. Ossia dal momento in cui i tifosi juventini e milanisti si sono accorti che l’acquisto dei biglietti allo stadio comportava il rispetto delle leggi locali, che stabiliscono una rigida separazione dello spazio pubblico tra uomini e donne, con settori dello stadio destinati agli uomini soli e quelli riservati alle famiglie, dove le donne potrebbero entrare. A prescindere dalle polemiche interne italiane tra ministri, tifosi, giornalisti e società calcistiche, la questione ha avuto il merito di sollevare l’interesse del grande pubblico verso la società saudita e le leggi e consuetudini che regolano la vita quotidiana delle donne. Per le saudite che protestano nei confronti di leggi che considerano inique o ingiuste, il trattamento non è affatto morbido e, dunque, il libero ingresso allo stadio è purtroppo l’ultimo dei problemi.
Nei giorni scorsi, per citare solo un caso, i media internazionali hanno riferito la vicenda di Rafaf Mohammed al-Qunun, una diciottenne saudita che, in vacanza in Kuwait con tutta la famiglia, ne ha approfittato per prendere un aereo per la Thailandia con l’intenzione di fuggire dal padre e chiedere asilo in Australia. Attraverso Twitter migliaia di utenti hanno seguito le dirette della giovane dall’aeroporto di Bangkok, con le quali spiegava le motivazioni del suo gesto e informava d’essere stata fermata dalle autorità aeroportuali, che le avevano confiscato il passaporto. I «cinguettii» della ragazza saudita proseguivano dalla camera dell’albergo poi dove era stata temporaneamente confinata su richiesta delle autorità saudite in vista dell’estradizione, e in cui infine si era barricata per ottenere un incontro con funzionari dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Sempre da lì, la giovane ha documentato la conclusione positiva della sua avventura, con l’ottenimento della protezione a Bangkok e l’approdo finale in Canada, che l’ha accolta il 12 gennaio scorso.
All’esito sperato hanno contribuito in modo determinante l’azione di alcune ong e un movimento di opinione sviluppatosi in Rete. Ciò che è più interessante sottolineare sono le motivazioni che danno origine al caso: Rafaf ha dichiarato che la sua famiglia si è sempre comportata con lei in modo violento e prevaricatorio, arrivando anche a chiuderla in camera per sei mesi dopo la sua decisione di tagliarsi i capelli. Ma la motivazione scatenante – che è poi quella confermata da Phil Robertson di Human Rights Watch e dal padre e dal fratello di lei, giuridicamente i suoi “guardiani” secondo la legge saudita – sarebbe la decisione di Rafaf di abbandonare l’islam, motivo per cui se tornasse in Arabia Saudita quasi sicuramente sarebbe condannata a morte come apostata, essendo l’abiura considerata uno dei maggiori reati nel Paese.
La pubblica opinione saudita, almeno quella che si esprime online, ha infatti già chiesto la condanna a morte della ragazza. Suo padre ha dichiarato alla stampa: «Piuttosto che toglierle il passaporto, sarebbe stato meglio toglierle il telefono». Con questa dichiarazione, si spera che Mohammed al-Qunun non abbia dato un’altra «buona» idea restrittiva alle autorità saudite che, nonostante le riforme appena varate, compreso il diritto di guidare da sole all’interno dei governatorati di nascita e l’ingresso nei cinema e negli stadi, non ha comunque modificato due aspetti fondamentali per la vita di ogni donna: la capacità di piena azione nel diritto proprietario e nella mobilità all’estero. In questi ambiti le cittadine saudite continuano ad essere soggette al permesso (e al diniego) del loro muharram, il guardiano, ossia il parente maschio più prossimo.
Perché Diwan
La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.
Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.
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Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen). È corrispondente da Sana’a per varie testate straniere.
Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu). Cura il programma Cous Cous Tv, sulle televisioni nel mondo arabo, per TV2000.
Ha girato, autoprodotto e venduto otto video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).