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Moria di carpe in Iraq, allevatori in crisi

Laura Silvia Battaglia
19 dicembre 2018
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Un'ancora misteriosa fonte di inquinamento dei fiumi della Mesopotamia ha causato la morte di migliaia di carpe da allevamento in Iraq. Un segnale d'allarme preoccupante.


Non bastava avere in casa gli uomini dello Stato islamico (Isis), le milizie di ogni colore e segno, la corruzione imperante, e alle spalle circa 30 anni di conflitti e una dittatura. Adesso l’Iraq deve affrontare – e anche con una certa urgenza – il picco del disastro ecologico sui suoi fiumi, posto che le avvisaglie dell’estremo inquinamento dei fiumi della Mesopotamia non risalgono a oggi. Il fatto è che migliaia di carpe sono state trovate morte sulle rive dell’Eufrate e la moria immediata e massiccia fa certamente pensare a un inquinamento indotto per mano umana.

Un sabotaggio, insomma, considerato che queste sono carpe d’allevamento in acqua dolce: il famoso mashgouf, ossia il pesce gigante di cui chi abbia visitato Baghdad almeno una volta, conosce il sapore delle carni, grasse ma deliziose, spesso cucinato alla brace sui ristoranti di pesce sulle rive. Trattandosi di carpe da allevamento, il primo danno della filiera economica del mashgouf è stato per gli allevatori che, nello spazio di un mattino, si sono trovati con un pugno di carpe immangiabili in mano. Più di un pugno per la verità, al punto tale che, per rimuoverle dal fiume, sono state necessarie addirittura le ruspe. Le perdite economiche si aggirano intorno a 10mila dinari iracheni al chilo (pari a circa 7 euro e mezzo), senza contare l’impossibilità di pagare i salari ai lavoratori, le spesa per le escavatrici e l’eventuale spesa in più se si volesse riattivare l’allevamento.

Ma questo evento non è che la punta dell’iceberg. L’Iraq soffre da anni una crisi dovuta al prosciugamento delle acque del Tigri e dell’Eufrate, un sistema di fiumi complesso che passa tra diversi Stati, tra cui la Siria, la Turchia e l’Iran, che trattengono e sfruttano in vari modi le acque sorgive per fini diversi (agricoltura o produzione di energia idroelettrica) e che, a causa di mancati accordi con l’Iraq, delle guerre precedenti e di quelle in corso con attori non statuali, ha impoverito le acque alla foce.

Così Bassora, la città più a Sud, che vanta un sistema di paludi e un ecosistema unico, soffre per un volume più basso di acqua rispetto a quello che dovrebbe ricevere. Anche a Bassora, durante le proteste successive alle elezioni politiche del maggio scorso, si sono verificati dei casi di avvelenamento: in migliaia hanno manifestato dopo che circa 100mila persone erano state ospedalizzate per avere bevuto acqua inquinata.

Cosa è stato e chi è stato? Il ministero dell’Agricoltura ha attivato un’indagine, mentre nelle aziende di allevamento delle carpe della provincia di Babylon, si specula su un possibile inquinamento chimico. Ma a chi sarebbe attribuibile, posto che le milizie dell’Isis sono state debellate al 90 per cento e che al Sud è quasi impossibile trovarne, è un mistero che ancora nessuna istituzione irachena riesce a risolvere.

 


  

Perché Diwan

La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.

Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.

Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen). È corrispondente da Sana’a per varie testate straniere.

Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu). Cura il programma Cous Cous Tv, sulle televisioni nel mondo arabo, per TV2000.

Ha girato, autoprodotto e venduto otto video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).

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