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Il vino in Giordania, un monopolio cristiano

Christophe Lafontaine
13 dicembre 2018
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Il vino in Giordania, un monopolio cristiano
Il clima favorevole di un angolo di Giordania consente di produrre un milione di bottiglie all'anno. (foto Véronique Pagnier / Wikimedia Commons)

Pochi sanno che anche in un Paese musulmano come la Giordania ci sono aziende vinicole. La bevanda alcolica, di varietà rossa e bianca, viene prodotta da due famiglie cristiane.


Tra i vini della Terra Santa prodotti dai cristiani conosciamo già il Latroun, originario dell’omonima trappa a ovest di Gerusalemme, il Cremisan dei salesiani alle porte di Betlemme, fors’anche il Nadim, dell’azienda vinicola Taybeh (Taybeh Winery). È meno noto il fatto che anche la minoranza cristiana nel regno hashemita produce vino, come il Saint George o il Machaerus della famiglia Zumot o il Jordan River e il Mount Nebo prodotto dagli Haddad. Le due famiglie cristiane in Giordania hanno una produzione annuale di un milione di bottiglie di rosso (cabernet sauvignon, merlot, shiraz, pinot nero …) e di bianco (chardonnay, moscato, pinot grigio, gewürztraminer e chenin Blanc …) e «sognano di piazzare il loro vino sul mercato mondiale», come ha scritto di recente l’Agenzia France Presse in uno dei suoi dispacci.

Va detto che le condizioni appaiono propizie. Entrambe le famiglie coltivano vigneti principalmente nella regione nordorientale di Mafraq, 45 chilometri a nord di Amman, non lontano dal confine siriano. Le viti traggono beneficio dai 330 giorni di sole all’anno e da una falda acquifera piuttosto generosa per la regione. Inoltre, d’inverno la neve del Jabal al-Arab, il massiccio montuoso che raggiunge i 1.800 metri di quota in Siria, consente una benefica irrigazione naturale. Anche per quanto concerne la qualità del terreno le viti sono fortunate: 50mila anni fa, un vulcano ora estinto riversò fiumi di lava basaltica (ricchi di minerali) nella zona, rendendola una delle più fertili della Giordania. A ciò si aggiunge una miscela d’argilla e calcare. L’argilla aiuta a mantenere una sana attività organica sotterranea, mentre il calcare preserva l’umidità del suolo, una delle maggiori sfide nella coltivazione dell’uva. Il vento dell’ovest della Giordania è un’altra delle tante benedizioni dei vigneti. A differenza dell’orientamento sulla direttrice nord-sud, tipico dell’Europa, qui i filari dei vigneti sono orientati lungo l’asse est-ovest. Il che mantiene i grappoli aerati durante la crescita e la maturazione e riduce le malattie derivanti dall’umidità.

La vinicola Jordan River è stata la prima azienda moderna fondata in Giordania a metà degli anni Settanta del Novecento dalla famiglia Haddad. Al 2004 risale il primo raccolto dei Vini JR derivante dai 120 ettari di vigneti piantati sull’altopiano di Mafraq a 840 metri sul livello del mare. Sono circa 45 le varietà di uve coltivate nella tenuta: vitigni provenienti principalmente da Francia, Italia e Spagna. In origine la famiglia Haddad produceva vino bianco e rosso da vitigni coltivati a Soueida, in Siria.

La famiglia Zumot decise di piantare 220 ettari nel 1996 a un’altitudine di oltre 600 metri nella regione a nord del villaggio di Sama, nella piana di Oran. Vinifica – dice il sito Internet ufficiale dell’azienda familiare – secondo criteri bio (né pesticidi, né concimi artificiali), una trentina di varietà d’uva d’origine francese, italiana e portoghese. Il progetto degli Zumot «è nato in un appezzamento di terra a Madaba, vicino alla storica chiesa di San Giorgio». Da qui il nome del vino prodotto.

Gli Haddad e gli Zummot, messi insieme, detengono il monopolio delle bevande alcoliche nel Regno hashemita, dove la vendita di alcol è legale. Di fatto, i vini sono ampiamente somministrati nei grandi alberghi o nei ristoranti di fascia alta per turisti più che venduti nei negozi lungo le strade. Va anche considerato il fatto che «tutte le bevande alcoliche, prodotte localmente o importate, sono assoggettate a tasse esorbitanti (oltre il 300 per cento del prezzo)», scrive Afp. Così in Giordania «il vino è un bene costoso: la bottiglia più economica ha un prezzo oscillante tra i 15 e i 20 euro», spiega all’agenzia di stampa francese Omar Zumot, direttore della compagnia vinicola Saint George, che ha studiato e fatto pratica di vinificazione in Francia.

Se è vero che le viti godono di condizioni naturali favorevoli, la produzione di vino rimane modesta. Le forti differenze di temperatura tra inverno ed estate rappresentano condizioni estreme che consentono la maturazione di piccole quantità d’uva. Solo il 10 per cento della produzione nazionale è attualmente destinato all’esportazione. Oltre ai dazi doganali, il costo del trasporto per gli Stati Uniti o l’Europa rimane elevato. Per il momento, una delle strategie adottate dagli Zumot e gli Haddad per promuovere il vino giordano è lo sviluppo dell’enoturismo. I vini giordani, secondo esperti e appassionati, sono promettenti. Nel 2018, i vini Jordan River hanno vinto 96 premi e i Saint George 23. Dati che alimentano le speranze per questo settore ancor giovane, riemerso circa mezzo secolo fa e caratterizzato da una sensibile accelerazione negli ultimi trent’anni.

Se gli Haddad e gli Zumot si impegnano al massimo per raggiungere i loro obiettivi commerciali è anche per far rivivere e perpetuare una tradizione enologica antica di oltre 2.000 anni e scomparsa nel VII secolo con l’affermarsi dell’islam, dopo essere emersa con i Nabatei di Petra e aver raggiunto l’apogeo in epoca romana e bizantina.

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