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Yemen, dalle bombe nascono i pugnali

Laura Silvia Battaglia
21 novembre 2018
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I frammenti dei missili sauditi che piovono sullo Yemen dal marzo 2015 vengono utilizzati dai fabbri per forgiare i pugnali ornamentali che i maschi yemeniti portano alla cintura.


In guerra si fa di necessità virtù: così i fabbri dello Yemen devastato dalla guerra, per produrre il tradizionale pugnale maschile chiamato jambiyya, si stanno servendo di una nuova fonte di metallo: i frammenti dei missili sauditi che piovono sullo Yemen dal marzo 2015.

Bambini e adulti, soprattutto contadini, raccolgono schegge dai loro terreni agricoli e dai sentieri in città e nei villaggi per rivenderli ai fabbri, ovviamente sottocosto.

Questo ornamento maschile, che indica sia l’appartenenza tribale che la rispettabilità dell’uomo che lo porta, è ottenuto da acciaio importato, ma i prezzi troppo elevati della materia prima nel Paese devastato dalla guerra hanno costretto i fabbri a rivolgersi altrove. Un chilogrammo d’acciaio ottenuto dagli ordigni, infatti, costa circa 500 rial (meno di 2 dollari), ossia la metà del prezzo dell’acciaio turco tradizionalmente importato.

Alcuni fabbri, per venire incontro alle richieste di persone sempre meno abbienti, stanno persino acquistando i resti di camion e di auto distrutte dai raid aerei della Coalizione a guida saudita, vista la penuria dell’acciaio importato. Ma non sembrano esserne scontenti: «Dai camion – dicono – nasce il miglior pugnale perché l’acciaio di cui sono fatti camion è forte e speciale».

La jambiyya ha una lama ricurva ed è spesso infilata in una guaina decorata a forma di uncino. Essa è nascosta verticalmente al centro di cinture ornate che gli uomini indossano sopra abiti lunghi, oppure sulla parte superiore del maawaz, la gonna maschile avvolgente. La forma dell’elsa del pugnale si riferisce spesso alla città, alla regione o alla tribù della persona che lo porta, e il prezzo dipende anche dal materiale di cui è fatta l’elsa: legno, corno di bufalo o corno di rinoceronte.

Più costoso è il pugnale e più elevato è lo status dell’uomo che lo indossa. Oggi, però, una jambiyya è costosa per tutti. I prezzi per i nuovi pugnali, infatti, vanno dai 100 ai 150 dollari, considerato che il reddito pro-capite in Yemen è precipitato a picco dai tempi d’oro del 2014 quando, secondo il CIA World Factbook, era pari a 1.300 dollari l’anno pro-capite.

 


 

Perché Diwan

La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.

Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.

Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen). È corrispondente da Sana’a per varie testate straniere.

Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu). Cura il programma Cous Cous Tv, sulle televisioni nel mondo arabo, per TV2000.

Ha girato, autoprodotto e venduto otto video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).

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