Cosa comporta essere giovani e cattolici in un contesto non facile come il Libano, gravato dai conflitti regionali e dalla precarietà economica. L'opzione di chi parte, le fatiche di chi resta, l'impegno della Chiesa.
«Sono come semi che fioriscono non soltanto fra le spine e le rocce, ma anche in un campo minato, che non si sa quando potrebbe esplodere». Con questa immagine padre Jules Boutros ha descritto i giovani libanesi parlando davanti al Papa e ai vescovi durante la quindicesima assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi, riunitasi in Vaticano nel mese di ottobre e dedicata ai giovani, alla loro esperienza di fede e al discernimento vocazionale. Il sacerdote, responsabile della pastorale universitaria siro-cattolica del Libano, è stato invitato a intervenire in qualità di uditore per portare le testimonianze dei ragazzi che incontra e conosce da anni. In Libano, come cappellano generale, è infatti in contatto con più di trenta istituzioni tra università pubbliche e private.
«Noi in Medio Oriente viviamo in un “campo minato”, perché siamo tra Paesi in guerra – ha raccontato a Terrasanta.net a conclusione del Sinodo –. In Iraq, per esempio abbiamo perso un’intera diocesi in un giorno, quando più di 120 mila persone sono scappate dalla pianura di Ninive in una notte». Secondo il sacerdote, sono anni che questo ciclicamente accade, se si guarda soltanto alla storia del Novecento: prima in Turchia, poi in Palestina, poi in Egitto, poi in Siria. «La nostra Chiesa siro-cattolica ha perso più del 60-70 per cento dei fedeli, che sono dispersi oggi in tutto il mondo», ha continuato padre Boutros.
In questo quadro i giovani libanesi si trovano ad affrontare nuove sfide. Così, prima che il cappellano universitario partisse per Roma, molti ragazzi sono andati a confidargli le loro difficoltà. «Mi hanno chiesto di dire al Santo Padre di venire in Libano, perché lo amano molto – ha riferito il sacerdote libanese –. Si domandano anche come vivere in un contesto di fondamentalismo religioso, in un Paese molto attaccato dalla secolarizzazione e dalle istanze islamiche fondamentaliste».
Una delle tematiche che tocca di più le nuove generazioni ha a che fare con le migrazioni, di cui pure si è discusso molto al Sinodo. Anche in Libano i giovani sono sempre più pressati dal dilemma partire o restare. Coloro che rimangono devono confrontarsi con l’altissimo numero di migranti. «Il Libano è un piccolo Paese da quattro milioni di abitanti che accoglie oltre due milioni di profughi (tra siriani e palestinesi) e anche loro cercano di lavorare – ha spiegato padre Boutros –. Ai datori di lavoro spesso conviene assumere i profughi perché li pagano meno e ciò crea sfiducia nei giovani libanesi. Non credono più che ci siano possibilità di lavoro». Per questo, secondo il sacerdote, si dovrebbe lavorare con impegno su come prevenire le migrazioni dei popoli, come aiutare tutti a trovare lavoro, sicurezza e pace. «Dobbiamo parlare di sviluppo come nuovo nome della pace, come diceva san Paolo VI nella Populorum Progressio. Il nostro sogno più grande è vivere in dignità nel Paese d’origine».
Il cappellano universitario riferisce che tanti giovani in Libano hanno difficoltà nel continuare gli studi a causa dell’alto costo delle università. «Molti non ce la fanno più a pagare le rette, soprattutto chi viene dalle zone rurali – ha affermato Padre Boutros –. Per questo decidono spesso di cercare borse di studio altrove in Europa, dove costa meno, e tanti non tornano più». Ciò rappresenta una sfida dal punto di vista pastorale, perché bisogna lavorare per dare speranza a chi resta, soddisfacendo, inoltre, la nuova sete di testimoni preparati e credibili. «Concretamente, la pastorale è chiamata a creare delle piccole comunità che rispondano alle necessità dei giovani – ha proposto padre Boutros –. Parliamo di gruppi che si radunano per la preghiera, per la formazione, per la recitazione, per il coro, per la musica. Ogni gruppo può vivere la preghiera, la missione, il servizio, celebrando la messa la domenica. I loro membri crescono nella fede insieme, perché i giovani non possono crescere in comunità troppo grandi in cui non li si conosce per nome».
Tra i giovani invitati come uditori al Sinodo per il Medio Oriente era presente solo un iracheno, Safa Al Abbia, caldeo, che con il suo intervento ha commosso molti, incluso il Papa. Tra i vescovi, invece, la partecipazione dal Medio Oriente e dalle Chiese orientali è stata massiccia.
Per il Libano, oltre al cappellano universitario e a quattro sacerdoti come assistenti, c’erano anche il patriarca di Antiochia per i maroniti, il card. Bechara Boutros Rai, il vicario apostolico di Beirut per i latini, mons. Caesar Essayan, e mons. Toufic Bou Hadir, responsabile Youcat della Fondazione araba (Chiesa maronita) e coordinatore in Libano dell’ufficio patriarcale per la pastorale giovanile. Proprio quest’ultimo, intervenendo in uno dei briefing con i giornalisti accreditati in sala stampa vaticana. nell’ultima settimana del Sinodo, ha presentato i nuovi volumi del catechismo Youcat tradotti integralmente in arabo, che stanno diventando un valido strumento di formazione per i giovani.
Monsignor Toufic Bou Hadir ha anche annunciato il primo incontro ecumenico internazionale dei giovani, organizzato dal Consiglio delle Chiese del Medio Oriente e dalla Comunità di Taizé, che si svolgerà a Beirut, dal 22 al 26 marzo 2019.
«In Libano siamo in un posto di guerra, difficoltà, sfide in ogni contesto: economia, sicurezza, terrorismo» ha raccontato il sacerdote maronita a Terrasanta.net. «Sono da poco tornato da un incontro con i giovani maroniti in Siria, il primo dall’inizio della guerra. Ho ascoltato il loro grido, la sofferenza di chi è stato obbligato a scappare e di chi è rimasto e non ha speranza di futuro. I nostri giovani hanno il diritto di sperare, di vivere. Dobbiamo far sì che le nostre comunità rimangano nei nostri Paesi. L’Occidente ha un grande ruolo in questo. In Medio Oriente abbiamo una speciale testimonianza da dare, noi che siamo nei luoghi della nascita e dell’incarnazione del Salvatore».
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