Il cardinale tedesco Augustin Bea, morto esattamente 50 anni fa, ebbe un ruolo decisivo per le nuove relazioni tra ebrei e cattolici. Una conferenza alla Gregoriana lo commemora e fa il punto.
Il 16 novembre 1968 moriva all’età di ottantasette anni il cardinale Augustin Bea. A cinquant’anni di distanza, il Centro studi dell’Università Gregoriana che porta il suo nome ha organizzato a Roma un ciclo di conferenze che si protrarranno fino all’aprile 2019. Il gesuita tedesco che fu il principale «architetto» della dichiarazione conciliare Nostra aetate, punto di svolta per le relazioni giudaico-cristiane, è stato ricordato nel primo incontro del 7 novembre scorso.
Confessore e consigliere di papa Pio XII negli anni Cinquanta, Augustin Bea fu nominato da Giovanni XXIII cardinale e successivamente presidente del Segretariato per l’unità dei cristiani. Si propose al Papa per l’incarico delle relazioni giudaico-cristiane e si adoperò per la stesura del documento che avrebbe cancellato l’accusa di deicidio nei confronti degli ebrei. Dal primo progetto del 1961 all’approvazione definitiva nel 1965, il documento cambiò parecchio, ma venne salvato grazie soprattutto alla tenacia di Augustin Bea.
«Il rapporto tra la Chiesa e l’ebraismo è radicalmente migliorato, in un modo che sessanta anni fa sarebbe stato quasi impossibile prevedere e Bea è uno degli attori principali di questa trasformazione» ha sottolineato padre Etienne Vetö, direttore del Centro Bea.
La dottoressa Saretta Marotta, storica dell’Università cattolica di Lovanio, in Belgio, ha spiegato che, in quanto tedesco, Bea sentiva in modo particolare la responsabilità della Shoah, ma che il suo attaccamento alla questione giudaica era legato anche ad episodi della sua vita personale. Durante l’occupazione tedesca di Roma, il cardinale, che era all’epoca rettore del Pontificio istituto biblico, nascose nello scantinato dell’edificio alcuni ebrei, salvando loro la vita durante il rastrellamento del 16 ottobre 1943. Vent’anni dopo, il suo impegno per il buon esito della dichiarazione della Chiesa cattolica sugli ebrei fu massimo e passò non solo per gli interventi in aula nell’ambito del Concilio, ma anche per tutti i suoi viaggi, le interviste, le conferenze, gli articoli di quegli anni.
«Bea difese la dichiarazione con passi anche più importanti e sconosciuti al grande pubblico. Si spese per proteggere il documento da operazioni di diluizione, cancellazione, nascondimento che ne avrebbero ridotto la portata sostanziale», ha proseguito la Marotta. Nonostante che la Commissione di coordinamento del Concilio avesse optato per una dichiarazione non limitata agli ebrei ma che comprendesse anche il rapporto con le altre religioni, il documento approdò finalmente in aula e fu approvato il 20 novembre 1964, a larghissima maggioranza. Nel quarto paragrafo della Nostra aetate si trovano le storiche affermazioni con cui la Chiesa cattolica ritira l’accusa a tutti gli ebrei di essere corresponsabili dell’uccisione di Cristo, e dichiara di non volerli più rappresentare come rigettati e maledetti, condannando inoltre ogni forma di antisemitismo.
Sul futuro della Nostra Aetate è intervenuto alla Gregoriana il professor René Dausner, dell’Università di Hildesheim in Germania, sostenendo che ancora oggi il documento porta con sé importanti conseguenze teologiche e merita di essere conosciuto meglio, insieme all’intero concilio ecumenico Vaticano II.
Un punto di vista diverso sulla Nostra Aetate è stato offerto dal professor Israel J. Yuval, dell’Università ebraica di Gerusalemme. «Questa dichiarazione ha permesso di immaginare non solo un cristianesimo diverso, ma anche un ebraismo diverso – ha affermato –. La Nostra Aetate ha permesso agli accademici ebrei di ascoltare più attentamente la voce nascosta delle fonti talmudiche, quelle che nel corso della storia erano rimaste silenziose». Secondo lo storico, infatti, dagli anni Novanta in poi sono diversi gli studi che vedono una vicinanza ideologica tra cristiani ed ebrei e che cercano tracce della tradizione cristiana nelle fonti del Talmud, l’insieme degli insegnamenti dei rabbini su diversi argomenti e raccolti tra il III e il V secolo in due opere: il Talmud babilonese (il più noto e corposo) e il Talmud palestinese (o gerosolimitano). Tutte le ricerche della generazione passata tendevano, invece, a concepire la relazione giudaico-cristiana con la metafora del rapporto madre-figlia, dove la religione-madre, l’ebraismo, non era interessata alla religione-figlia, il cristianesimo.
«Trent’anni fa un mio amico mi ha accusato di essere ossessionato dal trovare il cristianesimo ovunque nell’ebraismo – ha detto il prof. Yuval -. Oggi è “una moda”». Secondo lo storico dell’Università ebraica, ciò avviene per tre ragioni: come attitudine della seconda generazione di ebrei emigrati dall’Europa, che vede il cristianesimo come un ponte con la cultura europea, alla quale vuole ancora appartenere; come conseguenza dell’incontro di questa generazione con il Nuovo Testamento, non più visto come un «libro estraneo», ma come un testo che racconta la storia della loro terra; come frutto del corrente conflitto con l’Islam, che induce a cercare un’alleanza con il cristianesimo.
Benché la Chiesa cattolica abbia cancellato con la Nostra aetate le accuse che muoveva agli ebrei, tra di loro si riscontrano approcci diversi alla questione. «Anche dopo la Nostra aetate molti ebrei in Israele ancora preferiscono “la storia negativa” – ha sottolineato Yuval -, probabilmente perché la loro lunga storia di sofferenza può salvare e giustificare l’esistenza dello Stato d’Israele».
Israel J. Yuval è oggi una delle massime autorità ebraiche nelle relazioni tra ebrei e cristiani, ma come è nato il suo interesse in questo ambito? «Ci sarebbero molte risposte, ma credo che il primo interesse per il cristianesimo sia nato quando lessi per la prima volta il Nuovo Testamento», racconta lo storico a Terrasanta.net. «Vivevo a Gerusalemme – soggiunge – e conoscevo un po’ la storia della città. Stavo leggendo un libro considerato “dei non ebrei” che raccontava di eventi accaduti a Gerusalemme e con protagonisti degli ebrei. Lo trovai interessante. Il Nuovo Testamento è letto da molti israeliani: è qualcosa che appartiene al loro ambiente, alla loro storia, alla storia della loro terra. Non è un libro scritto da “stranieri” o da persone di culture estranee».
L’approccio del professor Yuval alla questione è teso a trovare punti di incontro e momenti di confronto tra le due religioni. «Il mio sogno – spiega – è che cristiani ed ebrei possano studiare insieme, in occasioni come questa conferenza». Oggi esistono istituzioni per gli studi giudaici, ma c’è l’idea che gli studi giudaici siano qualcosa a sé. «Mi piacerebbe vedere, invece, istituti per gli studi giudaico-cristiani – ha affermato –. Le persone parlano di relazioni giudaico-cristiane e “relazioni” è una bella parola, ma vorrei vedere molto di più. Vorrei vedere un reale riesame del modo in cui le due religioni si rapportano l’una all’altra e interpretano la propria eredità. Il loro rapporto non è sempre stato molto amichevole, certo, ma questo è parte della storia».
—
Clicca qui per un’intervista audio alla dottoressa Saretta Marotta, dal portale Vatican News.