C’era molta curiosità e preoccupazione in Israele (e non solo), per le elezioni amministrative (comunali e regionali) che hanno visto alle urne circa 6 milioni di israeliani. Curiosità perché questo turno elettorale rappresentava un test importante prima delle elezioni politiche che si terranno nel 2019. Preoccupazione perché la campagna elettorale è stata segnata da una ulteriore radicalizzazione nella lotta politica, che ha cavalcato come non mai i temi anti-palestinesi e xenofobi.
A urne chiuse (il primo turno si è tenuto il 30 ottobre, il ballottaggio il 13 novembre), il bicchiere è mezzo vuoto e mezzo pieno. A Tel Aviv e a Haifa vince il Partito laburista. Il sindaco Ron Huldai, una delle figure politiche più popolari nel Paese, è stato rieletto alla guida della città che con i sobborghi è la più grande d’Israele, oltre tre milioni di abitanti.
A Haifa, Einat Kalisch-Roten ha sconfitto Yona Yahav , sindaco uscente, al potere da 15 anni. La Kalisch-Roten sarà la prima donna a governare una grande città. Il rinnovamento voluto dal leader laburista Avi Gabbay («più giovani, più donne»), sembra aver dato i primi frutti.
Un dato generale che fa ben sperare è l’aumento dei votanti, oltre il 10 per cento in più rispetto alle elezioni precedenti. E forse grazie anche a questo fattore si è verificato un generale bilanciamento tra destra e sinistra nelle principali città.
Ovvio che al centro dell’attenzione sia stata Gerusalemme, tradizionale roccaforte dei partiti di destra. La città, feudo della destra israeliana e dei religiosi ortodossi, era l’osservata speciale dopo il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv voluto da Donald Trump. Il Likud del premier Netanyahu aveva schierato come candidato il ministro per Gerusalemme, Zeev Elkin, un ultranazionalista religioso, per sostituire l’uscente Nir Barkat. Elkin non è riuscito a raggiungere il ballottaggio, che ha visto fronteggiarsi Ofer Berkovitch, laico ma appoggiato da Netanyahu dopo la debacle del candidato del Likud, e Moshe Lion, sostenuto dai partiti religiosi.
Come consuetudine da oltre 50 anni (ma a maggior ragione questa volta, alla luce della strategia trumpiana di voler riaffermare Gerusalemme come capitale dello Stato, e della legge Stato-nazione che indentifica Israele come la patria dei soli ebrei) i cittadini arabi di Gerusalemme hanno boicottato le urne.
Come è finita, è ormai cronaca. La vittoria di Moshe Lion (seppure per poche migliaia di voti) è risultato il chiaro segnale che il Likud non riesce a vincere dove si presentano candidati dei partiti della destra religiosa, che ha fatto man bassa anche dei seggi nel consiglio municipale: 17 su 31; alla destra laica del Likud e partiti minori sono andati solo 5 seggi.
Il risultato di Gerusalemme è la prova di una ulteriore polarizzazione del voto nell’opinione pubblica israeliana. Al recupero della sinistra fa da contraltare lo spostamento a destra, verso i partiti ultraortodossi, di buona parte del tradizionale elettorato del Likud.
Un’anticipo di quanto potrà accadere nelle prossime elezioni politiche è avvenuto in varie città, a Ramla come ad Afula, dove la propaganda anti-araba ha dominato la scena. Le città sono state tappezzate da manifesti che mostravano una giovane donna chiara di carnagione e dagli occhi azzurri, velata alla moda islamica. Lo slogan era inequivocabile: «Potrebbe essere tua figlia», alludendo ai casi di assimilazione (pochi in verità) che ogni anno si registrano in alcune città dove è consistente la presenza di arabi palestinesi.
Insomma, che il marketing politico (anche) in Israele non si facesse scrupolo di usare la paura dell’«altro» (arabi o immigrati che siano) come arma per creare consenso, era risaputo. Ora anche l’identità religiosa e l’appartenenza al popolo ebraico (nello Stato-nazione degli ebrei), diventa un elemento antagonista da cui non si prescinde. Con quali conseguenze?