Cunabula Domini nostri Iesu Christi: culla del Signore nostro Gesù Cristo. Così una targhetta descrive il contenuto del prezioso reliquiario di cristallo sormontato da un bambino in oro, esposto nella basilica papale di Santa Maria Maggiore a Roma. All’interno, quattro assi di legno di acero della Palestina sono tutto ciò che resta della «Sacra Culla» dove venne deposto Gesù appena nato. Lontano dalla Terra Santa, le reliquie si trovano oggi in quella che chiamano «Betlemme d’Occidente», «Basilica liberiana», «Santa Maria della neve» e «Santa Maria ad presepem». Sono nomi che fanno riferimento a episodi e tradizioni antiche legate alla basilica papale situata sul colle Esquilino a Roma, da secoli meta di migliaia di pellegrini ogni anno. Lo stesso papa Francesco vi è molto legato, tanto che è sua tappa fissa alla partenza e al rientro da ogni viaggio internazionale.
Non è un caso che le reliquie della Sacra Culla siano conservate a Santa Maria Maggiore, dato che fin dalla fondazione sono diversi i collegamenti con la Madonna e la natività di Cristo.
«La basilica papale di Santa Maria Maggiore è il più antico santuario mariano non solo di Roma, ma di tutto l’Occidente», ha scritto sull’Osservatore Romano del 26 gennaio scorso il cardinal Stanisław Ryłko, arciprete della basilica. Secondo la tradizione, venne infatti costruita nel IV secolo su richiesta della Vergine stessa, che apparve in sogno al patrizio Giovanni e al papa Liberio. Un miracolo indicò il luogo: la mattina del 5 agosto il colle Esquilino apparve ricoperto di neve (da lì l’appellativo di «Maria della neve»). Proprio in quel punto papa Liberio tracciò il perimetro della nuova chiesa (per questo detta «liberiana»), finanziata poi dal patrizio Giovanni. Ogni anno il 5 agosto il «miracolo della nevicata» viene rievocato con la caduta di tanti petali bianchi dal soffitto a cassettoni.
La basilica venne restaurata e ampliata da Sisto III, in occasione del concilio di Efeso (431), in cui venne dichiarato il dogma della divina maternità di Maria. Lo stesso papa fece costruire nella basilica una sorta di grotta della Natività simile a quella di Betlemme e da lì la successiva denominazione di «Santa Maria ad presepem» (dal latino praesepium, mangiatoia). Nello stesso luogo venne collocato nel 1288 il primo presepe della storia scolpito da blocchi di pietra: fu il papa Niccolò IV che commissionò ad Arnolfo di Cambio una raffigurazione della Natività, terminata nel 1291 e ancora visibile nella chiesa. Col tempo Santa Maria Maggiore arrivò a meritarsi l’appellativo di «Betlemme d’Occidente».
A rendere il luogo uno dei più importanti per la devozione mariana è poi l’icona di Maria detta Salus populi romani, conservata nella basilica. È un’immagine dagli evidenti caratteri orientali, legata a numerose vicende miracolose. Per questo l’ultima domenica di gennaio, il giorno della festa della Traslazione dell’icona della Salus populi romani, la basilica è sempre affollata da romani e pellegrini, «che vedono in quest’icona la loro Madonna, la Madonna di Roma, l’icona mariana più amata e onorata, al punto da essere considerata come un palladio, cioè uno scudo della città», ha scritto ancora il cardinal Rylko.
I devoti si recano poi a migliaia a inginocchiarsi nella cappella della confessione, nell’ipogeo costruito sotto all’altare maggiore, dove sono contenute le reliquie della culla di Gesù.
Nel prezioso reliquiario, realizzato da Giuseppe Valadier (1762-1839), sono racchiuse cinque assi di legno, di cui una apparteneva ad un antico quadro della natività, scomparso con il sacco di Roma del 1527. Le altre quattro, sono state invece riconosciute provenienti da un albero di acero della Palestina probabilmente di duemila anni fa. Le tacche sulle assi ci dicono che potrebbero essere state incrociate a due a due, come a formare il cavalletto per sorreggere una culla in terracotta, in uso a quell’epoca. Sembra che un simile oggetto fosse venerato a Betlemme, secondo le testimonianze di Origene nel III secolo e di san Girolamo che nel 404 disse di aver visto proprio a Betlemme la culla che contenne il corpo di Gesù bambino.
«Quando parliamo di Sacra Culla, bisogna partire sempre dal Vangelo – spiega mons. Emilio Silvestrini, canonico liberiano e custode della reliquia –. In analogia con la Sacra Sindone, per cui il nostro pensiero corre al lenzuolo di cui parlano gli evangelisti, quando veneriamo la Sacra Culla, la nostra mente vola alla mangiatoia di Betlemme, nella grotta della Natività, di cui parla l’evangelista Luca». I passi del Vangelo di Luca che fanno riferimento a una mangiatoia sono tre: 2, 7; 2, 10-12; 2, 15-16. «Non è importante la scientificità, quanto il Vangelo e la tradizione – continua mons. Silvestrini –. Io credo che da niente nasce niente. Se è nato questo culto vuol dire che la tradizione ha tramandato qualcosa di importante. Non basta solo una leggenda per far nascere un culto così continuo». La venerazione di quelle reliquie, infatti, è stata costante nel corso dei secoli, anche se si fatica a trovarne l’inizio.
Ma come arrivarono le reliquie a Roma? Le ipotesi sono diverse. C’è chi dice che giunsero grazie alla madre di Costantino sant’Elena, che aveva portato anche pezzi della croce di Gesù dalla Terra Santa. C’è chi crede che furono i pellegrini di ritorno dalla Terra Santa a donare alla chiesa i preziosi resti. C’è anche chi sostiene che vennero donati a Sisto III (432-40) quando decise di ricreare la grotta della Natività nella chiesa romana. Maggior credito è dato alla tesi secondo cui nel 642 le assi della Sacra Culla sarebbero state inviate a Teodoro non appena nominato Papa da san Sofronio, patriarca di Gerusalemme, per salvarle dai saraceni. Papa Teodoro le avrebbe fatte portare a Santa Maria Maggiore, già conosciuta come Sancta Maria ad Praesepem. Eppure c’è una grave discrepanza cronologica che sembra annullare questa ipotesi: Teodoro divenne papa nel 642, cioè quattro anni dopo la morte di Sofronio, come nota Massimo Centini in La Terra Santa a Roma. Storia, tradizione e leggenda delle reliquie di Terra Santa nella capitale del cristianesimo (Edizioni Terra Santa, 2016).
A dispetto di queste disquisizioni storiche, le reliquie della Sacra Culla risultano citate e venerate da tanti illustri personaggi: da Francesco Petrarca a san Carlo Borromeo, da sant’Ignazio di Loyola e santa Brigida, fino ad arrivare al neo canonizzato san Francesco Spinelli.
In passato le sacre reliquie venivano spostate durante le feste natalizie nella navata centrale. Oggi, per evitare il cambio di temperatura e il deterioramento dei resti, questo avviene sola la notte di Natale, durante la messa di mezzanotte.
Monsignor Emilio Silvestrini, in quanto custode della reliquia, ha il compito di gestire tutto ciò che riguarda la Sacra Culla: dalle questioni di mantenimento alla preghiera quotidiana e in particolare del tempo di Natale. «Quando papa Francesco ha indetto l’anno della misericordia, ho visto il numero di pellegrini triplicare e anche persone di altre religioni sono venute e vengono per pregare – spiega –. È importante dire però che quando prego davanti al crocifisso, so che sto guardando un pezzo di metallo. Anche la reliquia della Sacra Culla è un oggetto e davanti ad essa faccio un inchino di venerazione. Ma è quando sono davanti al tabernacolo che mi inginocchio in adorazione, perché so che nell’Eucarestia è presente Gesù vivo».
Terrasanta 6/2018
Il sommario dei temi toccati nel numero di novembre-dicembre 2018 di Terrasanta su carta. Tutti i contenuti, dalla prima all’ultima pagina, ordinati per sezioni. Buona lettura!
E la luce fu
In questo Dossier approfondiamo l’iconografia e il valore teologico di ciò che resta di uno dei cicli musivi più riusciti dell’arte cristiana medioevale, restituitoci dai restauri in corso a Betlemme.
Un rapporto Hrw sulle violazioni palestinesi
In Cisgiordania come nella Striscia di Gaza vengono documentati abusi e torture degli apparati di sicurezza palestinesi. Poco spazio per dissenso e critiche verso le autorità.
Ai confini della speranza
Un viaggio dentro l’hotspot di Moria, a Lesbo, e nel campo di Skaramagas, alla periferia di Atene, condividendo la quotidianità assieme alle migliaia di rifugiati intrappolati nei campi profughi di Grecia