(c.l./g.s.) – È sembrata quasi una virata inattesa, in un contesto molto teso. Resta da vedere se davvero si può parlare di un riposizionamento di Donald Trump nel conflitto israelo-palestinese. «Personalmente sono per la soluzione a due Stati», ha dichiarato ai media il 26 settembre scorso il presidente degli Stati Uniti, a margine dei lavori d’apertura della 73.ma sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York. Frase pronunciata mentre il capo di Stato s’accingeva a un faccia a faccia con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Una posizione che suona inconsueta sulle labbra di Trump, ma è coerente con la linea dei suoi predecessori alla Casa Bianca, favorevoli alla creazione di uno Stato palestinese sovrano e indipendente accanto ad Israele. Una stella polare che orienta l’intera comunità internazionale.
Trump ha chiarito il suo punto di vista nell’arco della stessa giornata, durante una lunga conferenza stampa, sempre a New York, su temi di politica interna ed estera. L’inquilino della Casa Bianca ha osservato: «Penso che un giorno vedremo i due Stati». Pur ammettendo che quella resta la strada più difficile da percorrere – per tutte le complicazioni riguardanti i confini tra i due Stati e altri aspetti da regolare – Trump s’è detto convinto che quella soluzione funziona meglio perché consente a ciascuna delle due parti in causa di autodeterminarsi. Il presidente americano ha soggiunto che comunque lui è pronto ad accettare qualunque soluzione renda felici gli interessati: uno Stato o due Stati, purché tutti siano d’accordo.
Si noti, per inciso, che nel suo intervento del 25 settembre nell’aula dell’Assemblea Generale Onu Trump era stato alquanto laconico sulla questione israelo-palestinese, che considera uno dei problemi più difficili da risolvere. Pungolato dai cronisti, il presidente ha lasciato intendere che l’attesa proposta di pace elaborata dalla sua amministrazione potrebbe essere resa nota entro un paio di mesi, o forse quattro, dopo aver incassato l’accordo di massima delle parti in causa. E proprio quest’ultima condizione lascia intendere la ragione dei continui rinvii di una proposta largamente annunciata.
Il governo degli Stati Uniti si attende che anche i dirigenti palestinesi – come hanno fatto altri governanti prima di loro – si rassegnino a trattare con lui, considerandolo un interlocutore e un mediatore ineludibile. E ciò nonostante (o forse proprio per) le decisioni indigeste adottate negli ultimi mesi, prima fra tutte il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele, espresso il 6 dicembre 2017, e il conseguente trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv il 14 maggio scorso. Senza contare il taglio quasi totale degli aiuti statunitensi ai palestinesi e l’azzeramento dei contributi che Washington versava all’Agenzia dell’Onu per l’assistenza ai profughi palestinesi (Unrwa) o, ancora più recente, la decisione di far chiudere la missione diplomatica dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) a Washington.
Tutte misure e decisioni che «distruggono ogni possibilità di una soluzione a due Stati», come ha dichiarato all’Agenzia France Presse Hossam Zomlot, capo della missione diplomatica palestinese da poco chiusa nella capitale statunitense. Dal podio dell’Assemblea generale Onu, parlando il giorno dopo le dichiarazioni di Trump alla stampa, il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha ribadito che «con queste decisioni, il governo americano s’è rimangiato tutti gli impegni assunti in precedenza dal suo Paese e messo in pericolo la soluzione a due Stati».
Abu Mazen, riferisce la Reuters, il 27 settembre ha chiesto a Trump di annullare la decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. «Gerusalemme Est nel suo insieme è la nostra capitale», ha riaffermato Mahmoud Abbas, dopo un incontro con il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres con il quale ha ribadito l’impegno comune per la soluzione a due Stati, con Gerusalemme capitale condivisa. Attraverso l’azione diplomatica a margine dell’Assemblea generale, Abu Mazen ha nuovamente negato agli Usa il ruolo di mediatore unico, suggerendo loro di muoversi nell’ambito del Quartetto per il Medio Oriente, di cui fanno parte insieme con la Russia, l’Unione Europea e l’Onu.
Da parte sua, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito, dopo il suo incontro con Donald Trump, che Israele non rinuncerà «al controllo della sicurezza a ovest del Giordano», perché in caso contrario lo Stato islamico, Hamas, o l’Iran ne approfitterebbero. Il premier non si è pronunciato sulla creazione dello Stato palestinese. Più espliciti, da Gerusalemme, due suoi alleati di governo: il ministro della Difesa Avigdor Lieberman e quello dell’Istruzione Naftali Bennet. Il primo ha dichiarato che uno Stato palestinese non gli interessa; stessa musica da parte del secondo, capo del partito nazionalista La casa ebraica, il quale ha twittato che, per come la vedono il suo partito e lo stesso governo, «non ci sarà uno Stato palestinese», pena «un disastro per Israele».
Al contrario, Tzipi Livni capo dell’opposizione di centro-sinistra alla Knesset (il parlamento israeliano) s’è detta «molto incoraggiata dall’apparente cambiamento di linea da parte di Trump», come riferisce IsraelValley. La Livni ha chiesto a Mahmoud Abbas di riprendere a dialogare con gli Stati Uniti per far avanzare il processo di pace, che è letteralmente a un punto morto. Di fatto, a 25 anni dagli accordi di Oslo, la colonizzazione israeliana dei Territori palestinesi prosegue e, secondo l’Onu, la Striscia di Gaza è come una polveriera che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Mentre Israele ha il governo più a destra della sua storia.
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