Da Bologna Mohammad Sammak, una delle personalità musulmane libanesi più impegnate sul fronte del dialogo con i cattolici, riconosce il merito storico delle intuizioni di san Giovanni Paolo II.
Quarant’anni fa, il 16 ottobre 1978, dopo un conclave inaspettato, venne eletto papa il cardinale Karol Wojtyła. Il settimanale Time titolò efficacemente The Church in Shock. L’elezione di Giovanni Paolo II spiazzò molti e mise in crisi la categoria «conservatore-progressista»: accusato di essere un conservatore, era un vescovo del concilio Vaticano II, una personalità forte, formatasi nella resistenza ai due totalitarismi del Novecento.
Fu un papa carismatico che seppe invitare un Occidente stanco e impaurito a non avere paura: nello scenario bloccato della Guerra fredda, ha nutrito la fiducia che si potessero aprire dei varchi e l’ha comunicata ai popoli, per aiutarli a uscire dalla paura e dalla rassegnazione. «Ma non fu soltanto il papa dei cristiani. In Libano è stato il papa di tutti i libanesi». Lo dice Mohammad Sammak, consigliere politico del Gran muftì del Libano, intervenendo al convegno internazionale Ponti di Pace organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio a Bologna dal 14 al 16 ottobre. L’esponente sunnita, convinto assertore dell’importanza della presenza delle minoranze nel mondo arabo-islamico, ricorda commosso la visita di Giovanni Paolo II a Beirut nel 1997: «Dall’aeroporto alla chiesa intitolata a san Francesco d’Assisi c’era un paese intero in piazza: musulmani e cristiani, indifferentemente, piangevano commossi, avevano bandiere vaticane, le ragazze il velo biancogiallo. Del resto, nel vasto spazio che va dall’Indonesia al Marocco c’è una sola statua in onore di un Papa. Si trova nel cuore del cosiddetto “quartiere musulmano” di Beirut, nell’elegante distretto di Clemenceau, ed è dedicata a Wojtyła».
Sammak aveva un rapporto di amicizia con Giovanni Paolo II, coltivato con incontri e rapporti epistolari; nel 1995 lo invitò a Roma come esperto al Sinodo per il Libano. Nel 1986 era uno dei rappresentanti sunniti alla Giornata internazionale di preghiera per la pace, quando il Papa convocò ad Assisi i capi di tutte le religioni del mondo: «Aveva intuito – dice Sammak – come dalle religioni sgorgasse una sorgente di pace. Non si doveva discutere, ma pregare gli uni accanto agli altri. Ci chiamò “fratelli”. Il messaggio era chiaro: non più gli uni contro gli altri». Era una svolta epocale: «Anche noi esponenti musulmani sentimmo di vivere un momento storico. Il più importante nel dialogo islamo-cristiano dalla visita di san Francesco a Damietta». Per l’analista libanese, «Assisi segnò la ripresa del dialogo e tanti leader islamici iniziarono a studiare la dichiarazione Nostra aetate del Vaticano II, finalmente scoprendone il valore».
Nella città di san Francesco, Giovanni Paolo II disse: «La pace è un cantiere aperto a tutti, non solo agli specialisti, ai sapienti e agli strateghi». E alla fine lanciò un appello: «Continuiamo a diffondere il messaggio della pace e a vivere lo spirito di Assisi!». «In quel momento storico – dice Sammak – in tanti sentimmo la responsabilità di non lasciar cadere quell’appello. È stata la Comunità di Sant’Egidio a raccogliere quell’eredità, continuando quello che abbiamo chiamato lo “spirito di Assisi”. Di anno in anno, è cresciuta la partecipazione dei leader religiosi agli incontri, fino quest’anno a Bologna». Il consigliere del Gran muftì è stato un ospite fisso degli appuntamenti di Sant’Egidio. Sottolinea l’importanza di questi incontri: «Il dialogo soffre per la mancanza di conoscenza e per i malintesi. Ispirandoci alla cultura francescana che sa costruire ponti, dobbiamo correggere gli stereotipi. In Medio Oriente un pregiudizio ancora diffuso è quello secondo cui i cristiani d’Oriente sono i discendenti dei crociati, dimenticando che erano presenti da prima dell’Islam».
Per Sammak, il problema è «quando la fede diventa solo una pratica identitaria». «In Medio Oriente – continua – c’è talvolta troppa religione, ma troppa poca spiritualità». Come ha detto Andrea Riccardi inaugurando Ponti di Pace, «anche le religioni rischiano di essere attratte in opere di fortificazione del proprio spazio e dell’identità, preda di nazionalismi o antagonismi. L’autoreferenzialità delle religioni, chiuse nei recinti, è il sonno dello spirito. Ciò avviene mentre sono in crisi i progetti sull’unità o sulla comunità tra i popoli; si sono attutite le tensioni unitive tra le comunità religiose. Si afferma la prevalenza realista dell’io o del noi circoscritto».
Secondo l’esponente sunnita, già segretario generale del Comitato islamico permanente del Libano, il suo Paese rimane un modello di convivenza a cui guardare: «I rapporti tra persone di religioni diverse dovrebbero basarsi sulla fede nel pluralismo e nella diversità. La cittadinanza di uno Stato non si basa sulla tolleranza, ma sui diritti. Al primissimo segno di cambiamento o tensione nelle relazioni, la tolleranza potrebbe portare ad una violazione dei diritti umani. A loro volta i diritti sono fondati su eguaglianza e giustizia, e proteggono le relazioni umane e nazionali grazie al rispetto reciproco. Esattamente ciò di cui i nostri Stati nazionali hanno bisogno e su cui dovrebbero essere fondati».
Il Libano al palo
Nel Paese dei cedri ci sono 17 comunità religiose differenti e oggi il Libano vive un momento di stallo politico che potrebbe minare l’equilibrio interno. L’11 ottobre, il maggiore giornale libanese, an-Nahar, ha pubblicato un’edizione vuota per protestare poiché, a cinque mesi dal voto, il Paese non ha ancora un nuovo governo. Il consigliere del Gran muftì, Sammak, è netto: «I problemi non sono religiosi, ma legati alle ambizioni politiche».
Saad Hariri, rinominato primo ministro per la terza volta, sta cercando di formare un nuovo governo di accordo nazionale che, composto dai rappresentanti delle maggiori forze politiche, possa accompagnare il paese sulla strada delle riforme economico-strutturali. Il debito pubblico è infatti di circa il 150 per cento del prodotto interno lordo – il terzo più alto al mondo – mentre il deficit del bilancio ha recentemente superato il 20 per cento del Pil. I negoziati, però, stanno incontrando difficoltà, poiché ciascun partito tenta di strappare più peso nel nuovo esecutivo,
Nelle elezioni parlamentari di maggio, le prime svolte dal 2009, la maggioranza è stata conquistata dal blocco di alleati di Hezbollah, tra cui i cristiani del Libero movimento patriottico (Fpm) del presidente Aoun e il partito sciita Amal di Nabih Berri, confermato per la sesta volta presidente del Parlamento. Seppur nel 2017 la nuova legge elettorale abbia sostituito il maggioritario con il proporzionale con sbarramento al 10 per cento, dall’indipendenza del 1943 l’assetto istituzionale rimane fondato sul confessionalismo. Ognuna delle comunità religiose ha una propria quota di seggi riservata in Parlamento e le maggiori cariche sono ripartite tra le tre confessioni più numerose: il presidente della Repubblica deve essere cristiano maronita, il primo ministro sunnita e il presidente del parlamento sciita. (s.p.)