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Duro confronto tra polizia e monaci copti al Santo Sepolcro

Marie-Armelle Beaulieu
25 ottobre 2018
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Duro confronto tra polizia e monaci copti al Santo Sepolcro
Il monaco copto Macarios immobilizzato da agenti israeliani sul sagrato della basilica del Santo Sepolcro, a Gerusalemme. (g.c.: Afif Amireh)

Agenti israeliani il 24 ottobre hanno fatto ricorso alle maniere forti con alcuni monaci copti che impedivano un intervento di manutenzione al Santo Sepolcro. Le ragioni dello scontro.


L’immagine di due poliziotti israeliani che immobilizzano a terra un monaco copto sul sagrato della basilica del Santo Sepolcro ieri si è rapidamente propagata in Rete, anche oltre i confini del mondo arabo.

Nelle prime ore del mattino del 24 ottobre, di fronte alla resistenza della comunità copta che impediva agli operai israeliani di iniziare i lavori di restauro della cappella di San Michele Arcangelo, il cui soffitto è parzialmente crollato lo scorso autunno, le autorità israeliane hanno fatto intervenire la polizia contro i monaci. Coloro che bloccavano l’ingresso sono stati spostati a forza dagli agenti. Immagini scioccanti per certi versi, ma spiegabili con un imbroglio della lunga storia della presenza delle comunità cristiane nella chiesa della Risurrezione.

Uno dei due accessi alla cappella di San Michele Arcangelo, che fa parte del complesso basilicale, si trova sul sagrato: è una piccola porta sotto la cappella dei Franchi (quella raggiungibile con la scalinata in pietra appoggiata alla facciata esterna a destra del portale d’ingresso, sovente utilizzata dalle comitive di pellegrini per la foto ricordo di gruppo – ndr).

È proprio in questa cappella dell’Arcangelo che la comunità etiope trovò rifugio nel XVI secolo, quando fu cacciata dall’interno della basilica. Gli etiopi vi furono accolti dai copti ortodossi, dal momento che le due Chiese erano legate l’una all’altra. Da allora, il tempo è passato e gli etiopi – che in un primo momento condividevano il luogo con i copti – hanno finito inizialmente per gestirlo da soli – cosa che scatenò incidenti tra le due comunità – e in poi per rivendicarne la proprietà, basandosi su un firmano del 1890 del sultano ottomano Abdulhamid II. Da allora ad oggi, copti ed etiopi sono stati in aperto conflitto riguardo alla proprietà del locale. Nel frattempo le due Chiese si sono separate e i cosiddetti copti d’Etiopia sono diventati indipendenti nel 1959 come Chiesa ortodossa Tawāḥedo d’Etiopia.

In una situazione tutt’altro che semplice le due comunità hanno fatto appello a tutte le autorità civili che si sono succedute per venire a capo delle le loro divergenze. Alla fine, è entrato in gioco lo Stato di Israele. Dopo l’annessione di Gerusalemme Est nel 1967, i buoni rapporti che legavano gli israeliani ad Addis Abeba hanno probabilmente influenzato la decisione della Corte Suprema israeliana che, chiamata in causa dagli etiopi, riconobbe loro la proprietà della cappella. Una decisione rigettata dalla Chiesa copta ortodossa, che a sua volta ha cercato di far valere le proprie ragioni davanti alla stessa corte e allo Stato ebraico, sostenendo che nel 1971 i tribunali dichiararono di sua proprietà lo spazio sacro conteso.

Ad oggi le due Chiese fanno valere i rispettivi titoli, firmani e documenti vari, compresi quelli israeliani, apparentemente contraddittori, per rivendicare ciascuna i propri diritti.

Quando il 22 settembre 2017 il tetto degli spazi contesi è crollato – per mancanza di manutenzione, in assenza di accordo tra etiopi e copti – gli israeliani, di fatto autorità civile competente, hanno fatto chiudere la chiudere la cappella per ragioni di sicurezza e a titolo di prevenzione dei rischi. Nel rispetto dello Status quo, gli israeliani hanno atteso che entrambe le Chiese accettassero di effettuare i necessari restauri. Oltre un anno è passato invano e, in assenza di una soluzione condivisa, l’autorità civile ha deciso di portare a termine i lavori necessari. Il ministero dell’Interno ha stanziato un contributo di 400 mila shekel (100 mila euro) versato al Comune con scorno del consigliere municipale Dov Kalmanovich, che si è detto scioccato dal fatto che Israele stesse finanziando «una casa di idolatria». Gli interventi coordinati dall’Autorità israeliana per le antichità (parliamo di strutture risalenti al Medioevo) avrebbero dovuto iniziare martedì 23 ottobre senza che i monaci dell’una o dell’altra Chiesa fossero autorizzati a seguirli.

Mentre gli etiopi non si son fatti vedere, i copti hanno organizzato la fronda. Martedì hanno impedito agli israeliani di entrare una prima volta, organizzando un sit-in pacifico sul sagrato del Santo Sepolcro alla presenza del patriarca copto di Gerusalemme. Il negoziato tra la polizia e i monaci non ha sbloccato la situazione e gli israeliani si sono ritirati. Il 24 ottobre i monaci erano di nuovo lì ad aspettare gli operai del servizio delle Antichità israeliane accompagnati dai poliziotti che avevano la missione di aprire loro l’accesso.

Le forze di sicurezza israeliane, di fronte alla resistenza passiva dei monaci ammassati davanti alla porta, hanno fatto ricorso alla forza. E, come documentano le foto e i video, non hanno lesinato sul suo uso, ferendo leggermente diversi religiosi e strattonando il monaco Macarios, gettato a terra e ammanettato. La Chiesa copta ha chiesto alle altre confessioni cristiane di protestare contro la veemenza dell’intervento della polizia. La sera dello stesso 24 ottobre è stato emanato un comunicato che per rammaricarsi, a una sola voce, per il ricorso all’uso della forza.

Ma perché i copti non vogliono che gli israeliani riparino, a loro spese, la cappella? Per le Chiese i luoghi santi sono come la pupilla dei loro occhi e, tra tutti, il Santo Sepolcro è il più santo dei luoghi. Mantenerlo e conservarlo è considerato un privilegio da custodire gelosamente. Ogni Chiesa difende il proprio perimetro con lo stesso zelo. I copti quindi intendono occuparsi di questi lavori da soli, e la questione del loro diritto di proprietà dovrebbe essere definita, a prescindere (dal loro punto di vista) dall’occupazione degli etiopi.

Siamo davanti a una violazione dello status quo che governa questi luoghi e garantisce la gestione del santuario alle sei chiese «comproprietarie»? Osserva il vicario della Custodia di Terra Santa, fra Dobromir Jasztal: «Questa non è la prima volta che Israele procede a dei lavori in assenza di un accordo tra le parti quando la sicurezza delle persone è in pericolo. È già accaduto per il pavimento della cappella dei siro-ortodossi, la cui proprietà è rivendicata dagli armeni (apostolici)». Il fondo accidentato in terra battuta era spesso causa di incidenti e siccome le due Chiese interessate non si mettevano d’accordo è stato piastrellato dagli israeliani per la sicurezza dei pellegrini. «D’altra parte, quando gli israeliani hanno segnalato le condizioni potenzialmente pericolose dell’edicola (costruita sopra la tomba di Gesù), le Chiese hanno trovato un accordo comune che ha permesso loro di intestarsi il restauro dell’edificio».

Se dunque gli interventi di questi giorni rappresentano una minaccia allo Status Quo, lo valuteranno gli specialisti delle Chiese e, se necessario, lo dichiareranno apertamente. Ma la storia del luogo e delle comunità che vi gravitano rende possibile comprendere la suscettibilità dei copti in materia.

Nel frattempo, una carica della polizia è diventata in poche ore un incidente diplomatico che ha mandato in fibrillazione le cancellerie in Egitto, Etiopia e Israele, dal momento che le relazioni tra questi Paesi poggiano su precari equilibri politici.

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