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Aleppo e la ricostruzione della fiducia

Stefano Pasta
19 ottobre 2018
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Il popolo di Aleppo si misura con la rinascita, anche se la guerra resta vicina e minacciosa. Gli sfollati cominciano a tornare. Le testimonianze del vescovo armeno cattolico Boutros Marayati e di una giovane profuga.


«Ricostruire le pietre è facile, ma riconciliare i cuori e ricucire gli uomini è più difficile». Con queste parole Boutros Marayati (70 anni), arcivescovo di Aleppo degli armeni cattolici, sintetizza la sfida che attende i siriani nei prossimi anni. «Non lasciateci soli, abbiamo bisogno di alleati fedeli», dice rivolto agli amici della Comunità di Sant’Egidio e ai leader religiosi riuniti a Bologna (dal 14 al 16 ottobre) per Ponti di Pace, il trentaduesimo appuntamento del cammino interreligioso dello “spirito di Assisi”. Prende la parola nel panel «Le nuove frontiere del convivere», confrontandosi con voci dalla Russia, Egitto, India, Israele e Indonesia.

Ad Aleppo, la città martire per cui nel 2014 il fondatore di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, lanciò l’appello Save Aleppo, «la situazione è più calma, da quando (nel dicembre 2016 – ndr) l’esercito governativo ha conquistato la città e i ribelli si sono spostati verso Idlib». Le ragioni del conflitto, però, non sono finite. «Adesso – dice l’arcivescovo – pare reggere il cessate il fuoco, non si è più svegliati nella notte da bombe e missili. L’aeroporto non ha ancora riaperto, poiché è sotto tiro, ma acqua ed elettricità sono tornate in quasi tutti i quartieri dopo oltre cinque anni». Il fronte non è comunque lontano, si spara a dieci chilometri dalla città e in altre zone della Siria, e Marayati non esclude che ci siano «gruppi dormienti in città».

«Ora che le armi paiono tacere – continua – c’è da ricostruire la fiducia tra gli abitanti. L’odio, che a volte strumentalizza la religione, porta a vedere con diffidenza e sospetto i concittadini. Insieme ai religiosi musulmani stiamo lavorando per seminare riconciliazione e perdono. Incontri come Ponti di Pace ci nutrono di parole e gesti verso questa direzione». Spiega l’arcivescovo: «Nel nostro governatorato (circoscrizione analoga alla Provincia in Italia – ndr) non c’è famiglia che non abbia una piaga per il conflitto; dei 4 milioni di abitanti ne sono rimasti solo un milione; 70 mila i cristiani, rispetto ai 200 mila che erano prima del conflitto. C’è una generazione di bambini che ha visto solo la guerra, non ha mai studiato con la luce delle lampade, non si è mai lavata le mani con l’acqua corrente; è senza latte e senza medicine. L’Aiuto alla Chiesa che soffre, la Croce Rossa, Sant’Egidio, le Caritas e altre associazioni (come Ats pro Terra Sancta, l’ong dei frati francescani – ndr) hanno dato un aiuto decisivo alla sopravvivenza». Monsignor Marayati evoca due immagini: quella dei bambini senza più genitori e un istituto di anziani armeni delle diverse confessioni (cattolici, ortodossi, riformati) distrutto di recente dalle bombe.

Eppure l’arcivescovo guarda alla sua città con speranza. Estrae dalla tasca il cellulare e mostra una fotografia: è un arancio aleppino nato tra le macerie. «Alcuni abitanti iniziano a tornare – spiega – sia tra chi era sfollato sul litorale e non riesce più a pagare l’affitto, sia tra i rifugiati in Libano, dove la situazione è sempre più dura». Le cifre di siriani giunti nel Paese dei cedri variano da un minimo di un milione a un massimo di due, in uno Stato di 10 mila chilometri quadrati con 4,5 milioni di abitanti. L’ostilità nei confronti dei profughi cresce, i permessi di soggiorno scadono e diventa difficile uscire dai campi profughi.

Ad Aleppo i cristiani abitano soprattutto ad ovest, mentre è la parte orientale la più colpita. «Stiamo iniziando a ricostruire – dice Marayati – noi armeni cattolici, su cinque chiese, siamo riusciti a riaprirne tre; due sono distrutte. La nostra scuola, che prima della guerra aveva mille studenti, ha appena riaperto con 450 alunni in una nuova sede (la vecchia è stata bombardata)». Dai più giovani arriva una forte sfida: «Per i quartieri di Aleppo ci sono alcune centinaia di ragazzi di strada, giovanissimi che hanno perso i genitori per la guerra. Hanno bisogno di essere aiutati: da questo dipenderà se diventeranno criminali o buoni cittadini. Insieme ad alcuni religiosi musulmani, stiamo lavorando con loro». Altri giovani armeni cattolici vanno a giocare, educando alla pace, nelle tende degli sfollati con i bambini a cui è stata rubata l’infanzia.

Il bilancio intanto ha superato i 500 mila morti, i 6 milioni e 300 mila profughi fuori dal Paese e altrettanti sfollati interni. «Per questo – spiega l’arcivescovo – anche nella calma apparente di Aleppo pare di stare sopra un vulcano, per la paura che la guerra riesploda di nuovo». Lo dice pensando con sospetto «al ruolo di Russia e Stati Uniti» e agli «interessi dei commercianti d’armi».

 


 

Nour via dalla guerra oscura

 

All’assemblea inaugurale di Ponti di Pace, domenica 14 ottobre, un’altra voce dalla Siria ha commosso i partecipanti. Quella di Nour Essa, siriana di origine palestinese, scappata tre anni fa quando il marito era stato chiamato per il servizio militare «ma non voleva uccidere i suoi fratelli». In assenza di vie legali, la coppia, con il piccolo Riad, ha dovuto pagare 5 mila euro per quattro mesi di viaggio attraverso Siria, Turchia, Grecia, fino a Lesbo. La sua è una delle famiglie che, nel 2016, papa Francesco portò con sé di ritorno dall’isola greca: «Siamo stati salvati da quel gesto di amore, che è continuato con l’accoglienza a Roma della Comunità di Sant’Egidio. Mio figlio ha ritrovato il sorriso dopo un anno». Racconta Nour: «La Siria prima della guerra era un simbolo di convivenza nella pace. Tra i miei migliori amici ci sono cristiani, drusi e alawiti. Festeggiavamo il Natale e l’Eid, la festa islamica, tutti insieme. Io e mio marito lavoravamo come biologa e come architetto paesaggista».

Le parole della donna ricordano quelle di Marayati: «Quando è iniziata la guerra abbiamo pensato che fosse una cosa momentanea, che non durasse, ma poi ha preso una città dopo l’altra. La guerra rovina l’anima di un popolo, mi sono resa conto che tutti cominciamo a guardare male gli altri». Ai capi religiosi e politici riuniti a Bologna ha detto: «Oggi non voglio parlare di politica ma solo della sofferenza del mio popolo. Siamo in una situazione opaca nella quale è difficile discernere chi ha torto da chi ha ragione». Se ad Aleppo qualche spiraglio si apre, la Siria continua a essere scandalosamente all’ottavo anno di guerra: «Alcune zone sono bombardate. La popolazione è disillusa, tormentata da un doppio sentimento, quello di paura e di rabbia. La pace non potrà arrivare attraverso l’invio di missili, ma solo attraverso il dialogo, l’uso delle armi non è una soluzione». (s.p.)

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