La possibile catastrofe umanitaria nella provincia siriana di Idlib sembra scongiurata da un accordo tra i presidenti di Turchia e Russia. La campagna militare non ci sarà se i ribelli disarmeranno.
La provincia di Idlib, nel Nord della Siria, è l’ultima roccaforte dei ribelli anti-Assad e dei terroristi islamisti. Si sono concentrati lì, dopo sette anni di guerra, circa 50 mila guerriglieri, con il territorio controllato per circa il 60 per cento dai jihadisti ispirati da Al Qaeda di Hayat Tahrir al-Sham, finanziati dai Paesi del Golfo e, fino a qualche settimana fa, anche dagli Usa (il presidente Donald Trump ha interrotto un flusso di 250 milioni di dollari distribuiti a pioggia a presunte organizzazioni umanitarie), e per il resto dal Fronte di liberazione nazionale, creato e finanziato dalla Turchia che ha messo insieme i resti dell’Esercito libero siriano e di gruppi islamisti minori. Ma a Idlib non ci sono solo loro. Ci sono anche due milioni e mezzo di siriani, in gran parte affluiti nella provincia man mano che la guerra si spostava attraverso il Paese.
Fino a pochi giorni fa ci si aspettava un attacco massiccio dell’esercito siriano e dei russi, e i primi bombardamenti erano già partiti, insieme con le minacce degli Usa e gli ammonimenti dell’Onu sulla possibile «catastrofe umanitaria». Poi Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdoğan si sono incontrati a Sochi e si è scoperto che, per usare le parole del portavoce, «l’attacco su Idlib non è in agenda». Un miracolo? Una vittoria del buon senso?
Piuttosto l’incontro di due strategie in apparenza opposte e in realtà complementari, le astuzie da scacchista di Putin e gli azzardi di Erdoğan. Putin sapeva che attaccare Idlib avrebbe in effetti comportato un prezzo insopportabile, in perdite di soldati e soprattutto di civili. È ciò che succede ogni volta che si combatte in un contesto urbano contro un nemico che si mescola alla popolazione, e a volte se ne fa scudo, l’abbiamo visto succedere a Gaza come a Fallujah e Mosul (Iraq), per restare alla Siria ad Aleppo e Raqqa. Ma sapeva anche che Erdoğan, più ancora di Bashar al-Assad, aveva una certa urgenza di trovare una soluzione alla «questione Idlib». Perché il «suo» Fronte rischia di essere soverchiato dai jihadisti di Tahrir al-Sham. Se questo succedesse, il suo progetto di creare una zona cuscinetto tra Turchia e Siria in funzione anti-curda sarebbe messo fortemente a rischio.
Così è stato Erdoğan a prendere l’iniziativa. Il piano concertato a Sochi prevede che si crei una zona demilitarizzata larga da 10 a 25 chilometri, pattugliata dalle truppe russe e turche insieme. Che le armi pesanti vengano ritirate sui due fronti. E che i jihadisti siano disarmati o allontanati. I rischi sono quasi tutti a carico di Erdoğan. Per esempio, quello che gli islamisti, per reazione, scatenino un’ondata di attentati in Turchia, come è già successo in passato. E anche quello, molto concreto, che gli stessi jihadisti rifiutino sia di abbandonare le armi e tornare alla vita civile sia di andarsene (verso dove, poi?). A quel punto toccherebbe all’esercito turco, e ai suoi alleati del Fronte di liberazione nazionale fare il lavoro che l’esercito siriano e le truppe russe si apprestavano a fare.
Putin e Assad intanto aspettano. Se l’azzardo di Erdoğan sarà premiato, vinceranno anche loro. Nel frattempo, soprattutto Putin ha conservato i buoni rapporti con un alleato difficile, ma indispensabile, come il leader turco.
Questo per la politica. Dal punto di vista del popolo siriano, invece, la realtà è che la guerra continua e che i moltissimi profughi affluiti nella provincia di Idlib (che prima della guerra aveva solo 750 mila abitanti) non potranno tornare alle loro case per chissà quanto tempo ancora. Alla fin dei conti, la vittoria più vera l’ottengono coloro che vogliono tenere aperte all’infinito le piaghe della Siria. E non è una buona notizia.
Perché Babylon
Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.
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Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com