Fatica a trovare un equilibrio il Paese mesopotamico: quattro mesi dopo le elezioni parlamentari del 12 maggio, mentre scriviamo, tra le forze politiche che erano all’opposizione del governo uscente di Haider al-Abadi sono in corso contatti per formare un nuovo esecutivo. Le elezioni hanno mostrato un Paese politicamente frantumato. Al voto sono andati solo quattro iracheni su dieci. Dopo tre mesi e lunghi riconteggi sono arrivati i risultati ufficiali e la distribuzione dei seggi, devono essere eletti gli organismi parlamentari e si deve formare una maggioranza.
I mesi estivi sono stati segnati da proteste, specialmente nel sud del Paese, contro la corruzione, la disoccupazione e la carenza di servizi pubblici. Nei giorni in cui si raggiugevano temperature di 50 gradi, nel quinto Paese al mondo per riserve di petrolio si susseguivano le interruzioni di corrente elettrica. Non sono servite le dimissioni del ministro dell’Energia per placare il malcontento. Le compagnie iraniane che fornivano di elettricità le regioni meridionali ridotto le forniture per ritardi nei pagamenti. Le manifestazioni di protesta a Bassora sono stare represse con la forza e ci sono stati una dozzina di morti.
«Le tensioni odierne che conosce l’Iraq vengono da lontano – ci riferisce mons. Jean Sleiman, arcivescovo di Baghdad per i cattolici latini -. La trascuratezza delle infrastrutture, la poca attenzione per la società civile, la corruzione che ha finito per svuotare le casse dello Stato non sono problemi solo di oggi». Secondo il vescovo, le proteste di queste settimane sono fomentate per condizionare la formazione del nuovo governo. «I protagonisti sono interni ed esterni – aggiunge -, anzi più esterni che interni».
L’Iraq continua a essere terra di scontro fra interessi di Paesi stranieri. La tensione crescente fra l’Iran sciita (sono musulmani sciiti il 70 per cento degli iracheni) e gli Usa che, dopo quindici anni dalla guerra a Saddam Hussein, non hanno ancora del tutto abbandonato il Paese, ostacolano le soluzioni politiche. In parlamento ci sono ben una trentina di forze diverse, la più grande delle quali è gruppo politico di Moqtada al-Sadr, nazionalista sciita, che ha solo 54 seggi su 329. Seguono l’Alleanza Fatah, gruppo filoiraniano, il raggruppamento del primo ministro uscente Abadi, i curdi di Barzani, l’alleanza dell’ex primo ministro al-Maliki, fino a singoli rappresentanti di piccole forze, comprese le varie minoranze linguistiche e religiose. Un quadro caotico, derivato dal sistema proporzionale. Gli stessi arabi sciiti, maggioranza nel Paese, politicamente vanno in ordine sparso.
Tuttavia, mons. Sleiman conferma che la situazione generale della sicurezza oggi è meglio assicurata. L’Onu e organismi indipendenti che monitorano la situazione riferiscono che il numero delle vittime civili delle violenze politiche è diminuito dell’80 per cento nei primi cinque mesi del 2018 rispetto all’anno prima. Le elezioni per la prima volta si sono svolte senza gravi incidenti. La riconquista di Mosul e delle aeree occupate dall’Isis nel nord ha contribuito. «Tuttavia ci vogliono ancora molti sforzi – aggiunge l’arcivescovo –, non solo per purificare il Paese dalle milizie e controllare il riemergere del tribalismo, ma anche per formare le forze dell’ordine».
C’è un lento rientro di famiglie cristiane dei centri della piana di Ninive da cui erano fuggite. «Ci sono ritorni in certi villaggi, ma non in tutti – spiega mons. Sleiman –. I finanziamenti non sono sempre a disposizione della gente e ci sono anche problemi nati da rivendicazioni e situazioni conflittuali. Ma devo salutare l’opera grandiosa delle organizzazioni cattoliche della Roaco, l’organismo che riunisce le Opere per l’Aiuto alle Chiese orientali».
Quali sono i principali bisogni della piccola comunità dei cattolici latini? «La comunità richiede sicurezza, pace, lavoro, une cultura di convivialità – spiega –. Tutto questo necessita della presenza di uno Stato di diritto, super partes, libero dagli “staterelli” che lo compongono». Si tratta anche dell’auspicio emerso dal sinodo dei vescovi caldei, che rappresentano la componente più numerosa del cristianesimo in Iraq. Non si stancano di sostenere quanti operano in un’ottica di rafforzamento dell’unità nazionale, superando la mentalità settaria.
«Il paese è stato abbandonato da lunghi anni a gruppi etnico-confessionali irredentisti – osserva mons. Sleiman -. Il fondamentalismo non è stato ben compreso, specialmente in Occidente. Lo si trattava come un movimento: era ed è, invece, una cultura, un modo di pensare. Si possono contare i miliziani, ma non si può penetrare le coscienze e misurare il cambiamento radicale nella cultura. L’estremismo è sparso in tutti i ceti. I libri scolastici lo radicano nei bambini e nei giovani».
Per questo si augura che la maggioranza degli iracheni possa recuperare la sua libertà di azione, lottare contro la corruzione, fermare l’emorragia delle finanze nazionali, e soprattutto pianificare una seria ricostruzione cominciando dall’insegnamento e l’istruzione. (f.p.)
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