Il colosso statunitense, tra i protagonisti su scala globale dell'intrattenimento via Internet, cerca abbonati tra il pubblico arabo. E lancia nuovi prodotti, che si rifanno alla tradizione.
La tradizione orale del mondo arabo, quella che si tramanda da nonni a nipoti e che una volta passava attraverso i racconti della buonanotte a lume di candela, oggi si trasferisce su Netflix, in una formula modernissima, tra horror e tech. Qui si parla di jinn, ossia, secondo la mitologia islamica, di spiriti, demoni o genietti che popolano il mondo di quaggiù ma che l’uomo, in genere, non vede. A meno di essere una personalità eccezionale o un profeta come, nella tradizione, Salomone o Muhammad.
Di certo, questa tradizione si porta dietro tutta l’Arabia pre-islamica, i rituali di purificazione e di esorcismo, come anche l’impossibilità a definire e qualificare eventi soprannaturali, la mala-sorte o anche stati di incoscienza di persone vive (il caso degli epilettici – che si è sempre creduto posseduti da un jinni, ossia da un demone – è esemplare in tutte le culture).
Ora ci pensa Netflix a far fare ai jinn un salto verso il mondo dell’horror. E lo farà mandando in onda, a partire dal 2019, la prima serie originale in lingua araba intitolata appunto Jinn. La serie è attualmente in lavorazione ad Amman, in Giordania, ed è il secondo contenuto in lingua araba disponibile su Netflix, dopo la commedia con il comico e attore libanese Adel Karam.
Non è comunque la prima volta che il tema dei demoni, spiriti e genietti della tradizione araba e orientale-islamica si affaccia a una produzione cinematografica. Prima era stato il turno del film Under the shadow, un horror iraniano nel quale una madre e una figlia sono perseguitate da un jinni piuttosto aggressivo. Jinn, invece, è un racconto corale. Prodotto da Kabreet Productions e diretto da Mir Jean-Bu Chaaya, Jinn segue un gruppo di adolescenti la cui esistenza viene messa a dura prova quando uno di loro, inconsapevolmente, libererà le forze soprannaturali dei Jinn. Si scatena dunque una lotta contro il tempo tra Bene e Male, dove intrighi, magie e azione sono protagonisti. Nella serie ci sono giovani attori molto noti nel mondo arabo. Tra questi i libanesi Salma Malhas, Hamza Abu Eqab, Sultan Alkhalil, Aisha Shahal, Yaser al Hadi e Ban Halaweh.
Al di là dell’operazione culturale, Jinn è soprattutto un’operazione commerciale. Con questa serie, Netflix spera di promuovere l’espansione del suo mercato in un’area dove ha registrato una flessione importante, probabilmente a causa della scarsità di offerta in lingua araba. Si tratta di un territorio molto vasto – che va dal Libano ai Paesi del Golfo e al Maghreb – e con un tasso molto alto di popolazione giovane, attrezzata di smartphone e globalizzata.
Per Erik Barmak, responsabile di Netflix internazionale, l’azienda «mira a creare uno spettacolo fantasy in arabo sui giovani del Medio Oriente. Dovrà essere reale, autentico e pieno di azione e storie incredibili dalla Giordania, ma sarà destinato al nostro pubblico sparso in tutto il mondo». Chissà se a Barmak è venuto in sogno un jinni, per suggerirgli la soluzione ideale per far riprendere quota a questo difficile business.
Perché Diwan
La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.
Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.
—
Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen). È corrispondente da Sana’a per varie testate straniere.
Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu). Cura il programma Cous Cous Tv, sulle televisioni nel mondo arabo, per TV2000.
Ha girato, autoprodotto e venduto otto video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).