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Gitai delude

Luca Balduzzi
4 settembre 2018
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Gitai delude
Un primo piano del regista israeliano Amos Gitai.

Alla 75.ma Mostra del cinema in corso in questi giorni a Venezia il regista israeliano Amos Gitai si è presentato con due opere (un corto e un lungometraggio). Entrambe ci hanno lasciato perplessi.


Una doppia occasione sprecata. È la sensazione che lasciano il cortometraggio A Letter to a Friend in Gaza e il film A Tramway in Jerusalem, entrambi del regista israeliano Amos Gitai, presentati in questi giorni, fuori concorso, alla 75.ma edizione della Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia.

Il primo altro non è che una lettura di testi degli scrittori Mahmoud Darwish, Emile Habibi, Izhar Smilansky e della giornalista Amira Hass, intervallata da fotografie e filmati dai cosiddetti territori occupati. Una semplice – banale – sequenza di primi piani dei lettori e degli ascoltatori che si conclude con un omaggio ad Albert Camus, ricordato attraverso una fra le sue quattro Lettere a un amico tedesco, scritta nel 1943.

Una “antologia” – se è possibile definirla in questa maniera – che non aggiunge assolutamente nulla alle riflessioni portate avanti dal regista già in precedenti occasioni. Né tantomeno a quelle degli scrittori scelti, che vengono proposti in maniera pedissequa. In quest’ottica, ascoltare le loro parole o quelle di altri autori che si sono espressi su questo stesso argomento non avrebbe fatto la minima differenza.

Altrettanto scoordinato si presenta il film ambientato sul tram di Gerusalemme. Spezzoni di vita quotidiana sulla linea che dal dicembre 2011 collega i quartieri orientali (a maggioranza palestinese) di Beit Hanina e Shuafat, con il monte Herzl, nel settore occidentale. Le scene, interpretate da attori, si alternano agli orari in cui sono state riprese.

Nelle intenzioni del regista dovrebbero raccontare i rapporti umani nel momento in cui nel centro spirituale delle tre grandi religioni monoteiste regnerà finalmente la pace. Però è decisamente complicato trovare un qualsiasi collegamento fra Noah, che canta una canzone mentre ammira la città fuori dal finestrino alle 5.30 di mattina, e Mathieu Amalric, sdraiato per terra ad ascoltare un musicista che si esibisce qualche ora più tardi. O fra il tentativo del nuovo commissario tecnico del Beitar Jerusalem di rilasciare un’intervista a un’emittente televisiva (mentre il suo vice lo interrompe in continuazione) e il sacerdote Pippo Delbono, che racconta alla sua maniera gli episodi della lapidazione dell’adultera e dell’Orto degli ulivi agli altri passeggeri, che non lo degnano della minima attenzione.

Dunque, un corto per narrare la difficoltà del presente e un film per raccontare le speranze per il futuro. Perché «il cinema deve parlare della realtà, delle difficoltà», spiega Gitai. «I registi non possono permettersi di divorziare dalla realtà quotidiana. Io faccio una sorta di diario della realtà di Gerusalemme da quarant’anni perché sono contro il cinema nazionalista e omogeneo. L’umanità è un’esperienza mista ed è importante che questo si veda sullo schermo».

Questa volta, però, il risultato non appare decisamente all’altezza della filmografia precedente di Gitai.

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