Una madre, alla luce della finestra, osserva una radiografia della figlia, indicando le schegge che le hanno trafitto il cranio. Amal è una ragazzina vivace, sopravvissuta all’attacco, ma ancora oggi ne soffre. Fuori, il grande sicomoro sotto cui si riunivano i capifamiglia è stato distrutto, lasciando uno spazio vuoto.
Intorno alle ferite della famiglia Samouni, raccontate con pacatezza, ma senza filtri, il film documentario di Stefano Savona Samouni Road mette a fuoco, poco a poco, il dramma che nel gennaio 2009 ha sconvolto il quartiere di Zeitoun, alla periferia di Gaza, dove vivono contadini che hanno pagato un prezzo di sangue altissimo durante un’azione dell’esercito israeliano nell’operazione «Piombo fuso». 28 membri del clan Samouni sono morti, uccisi nel bombardamento della casa dove erano riparati.
Dopo un decennio gli attacchi da Gaza, e su Gaza, sono ancora parte della cronaca quotidiana. La striscia costiera di territorio palestinese continua a non trovare una soluzione politica adeguata ai suoi due milioni di abitanti.
Savona conosce le persone che riprende e intervista (era presente a Gaza già dieci anni fa, documentando «Piombo fuso» dall’interno) e offre una dimensione intima della loro sofferenza.
I giovani sopravvissuti ricostruiscono case e piantano nuovi ulivi. Emerge la povertà della vita quotidiana nelle lunghe ore di black-out o nei preparativi delle nozze di un fratello. I principali protagonisti, Amal e Fouad, sono ragazzini che raccontano senza fornire letture politiche. I Samouni non vogliono essere strumentalizzati da Hamas, Fatah o altri, conservano la memoria di chi è morto senza una ragione e viene pianto come un martire, in uno dei più gravi «incidenti» di quella guerra.
Il film va ben oltre il presente, mostra la sproporzione tra le parti nel conflitto-massacro in quel distretto di Gaza dove per alcuni giorni fu impedito perfino l’accesso della Croce Rossa. Lo fa ricorrendo a diverse tecniche, unendo presente e passato, la dimensione soggettiva delle vittime e il punto di osservazione del drone, esecutore della strage. I disegni di animazione creati da Simone Massi rappresentano in modo potente la violenza, vista dall’interno, con gli occhi dei Samouni, e completano le scene girate. Sono disegni senza colori, incisi, graffiati, che esprimono tensione emotiva nei momenti più drammatici, come quando i padri riuniti sotto il sicomoro devono decidere che cosa fare per mettere al sicuro i propri cari…
Colpisce, poi, l’animazione digitale in 3D degli pseudo-visori notturni: nella ricostruzione della strage, i civili appaiono come animaletti bianchi, scambiati per uomini armati e invece sono persone inermi, tra cui molti bambini. Le immagini paiono reali, ma riproducono fatti accaduti e accertati da due inchieste, una dell’Onu e una interna delle forze armate israeliane.
Tra documento e finzione, si ricostruisce una vicenda con l’intenzione di avere un impatto sullo spettatore. Il regista non cerca una posizione di neutralità, ma di sincerità. È stato archeologo, ricompone con pazienza e nel mostrare il divario delle forze in campo scuote le coscienze (più di tutti, vorrebbe raggiungere il pubblico israeliano) lasciando una traccia profonda, un senso di ingiustizia.
Alla fine sulle immagini di un matrimonio aleggiano senso di rassegnazione, voglia di resistenza. Qualche giovane prenderà in mano le armi? Non ci sono risposte chiare sullo sforzo dei giovani di onorare una memoria che forse potrebbe tramutarsi in vendetta.
Al Festival di Cannes del 2018, grande accoglienza di Samouni Road che, nella prestigiosa rassegna della Quinzaine des réalisateurs ha ricevuto il premio l‘Œil d’or come migliore documentario. In attesa di una probabile presentazione agli Oscar. (f.p.)