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Società St. Yves: Dalla giustizia la pace

Beatrice Guarrera
12 giugno 2018
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Società St. Yves: Dalla giustizia la pace
L'avvocato Raffoul Rofa, direttore della St. Yves, prende la parola al Centro culturale Yabous di Gerusalemme.

È l'unica ong di matrice cattolica per la tutela legale dei cittadini palestinesi in Terra Santa. La Società St. Yves opera dal 1991 dalle due sedi di Gerusalemme e Betlemme.


Discriminazioni nell’assistenza sanitaria, mancati permessi per entrare in Israele, demolizioni di case e scuole, confische di terre: sono i problemi di palestinesi e residenti a Gerusalemme con cui ha a che fare ogni giorno la Società di St. Yves. Fondata nel 1991, è l’unica organizzazione di matrice cattolica per i diritti umani in Terra Santa. Fu il patriarca latino dell’epoca, mons. Michel Sabbah a volerla, su proposta di colei che ne fu poi la prima direttrice, Linda Brayer.

«Eravamo alla fine della prima intifada e c’era bisogno di organizzazioni per i diritti umani», spiega l’attuale direttore, l’avvocato Raffoul Rofa. Il primo caso gestito da St. Yves fu nel 1991 contro il ministero della Difesa israeliano per chiedere che anche ai palestinesi della Cisgiordania fossero distribuite le maschere antigas, visto che si temeva un attacco chimico dall’Iraq. La Corte suprema accettò la petizione e ordinò ai militari di distribuire maschere antigas. Da quel momento è iniziata l’azione dell’organizzazione che ogni anno fornisce assistenza legale a migliaia di persone. Assistenza sanitaria, libertà di movimento, pagamento delle tasse senza discriminazioni sono solo alcuni dei diritti per cui la St. Yves si batte. Oggi conta venticinque impiegati, tra cui dieci avvocati, nei due uffici di Gerusalemme e Betlemme. Tra di loro vi sono cristiani cattolici e ortodossi, ebrei e musulmani, che possono usufruire ognuno delle vacanze relative alle proprie feste religiose. L’organizzazione prende il nome da sant’Ivo di Bretagna, un aristocratico e dottore in Legge del Tredicesimo secolo, famoso difensore dei poveri e considerato co-patrono degli avvocati.

Continua Rofa: «Operiamo a Gerusalemme Est e nell’Area C (sottoposta al pieno controllo dell’amministrazione militare israeliana – ndr) della Cisgiordania meridionale. A Gerusalemme Est ci occupiamo delle questioni legali relative alla residenza dei palestinesi e alle riunificazioni familiari». Dopo la Guerra dei sei giorni (1967) Israele ha infatti concesso ai palestinesi di Gerusalemme lo status di «residente permanente», ma una legge emanata successivamente stabilisce che il palestinese che abbia lasciato Gerusalemme per sette anni, non necessariamente continui, o che abbia acquistato un’altra cittadinanza per naturalizzazione, possa vedersi revocato il suo status di residente. Il direttore della Società di St. Yves dice che «dal 1967 ad oggi, quindicimila palestinesi hanno perso il diritto di vivere a Gerusalemme».

Solo tra l’11 aprile 2017 e il 24 maggio 2018 l’organizzazione cattolica per i diritti umani ha chiuso 4.838 casi sui 5.141 gestiti: parliamo di consulenze, servizi legali, attività di sensibilizzazione, casi di pubblico interesse.

Il lavoro tra la gente

«Lavoriamo nelle strade, a contatto con la gente – spiega con orgoglio l’avvocato Rofa -. A volte le persone ci chiamano direttamente; altre volte siamo noi a muoverci per sessioni di sensibilizzazione. Gran parte della nostra missione è uscire e informare la popolazione dei propri diritti. Inoltre sollecitiamo anche il sostegno internazionale».

Molte delle vicende che tratta la Società di St. Yves hanno a che fare con discriminazioni, come quella dei pagamenti per l’assicurazione sanitaria statale ai palestinesi di Gerusalemme. Non molto tempo fa, infatti, lo Stato di Israele attraverso il ministero della Salute decise di concedere l’assicurazione sanitaria pubblica a quei palestinesi che hanno permessi di ricongiungimento familiare con residenti permanenti a Gerusalemme. «È stata una decisione eccellente perché queste persone hanno bisogno di cure mediche adeguate – afferma Raffoul Rofa -. Il problema è che c’è stata una discriminazione nei pagamenti». I palestinesi coniugati con cittadini israeliani devono pagare inizialmente circa 1.700 shekel (poco più di 400 euro) e poi mensilmente intorno ai 500 shekel (118 euro). I palestinesi sposati con i residenti permanenti, invece, dovrebbero versare come investimento iniziale quasi 8.000 shekel (1.900 euro) e mensilmente 500 shekel. Sollecitata da diverse segnalazioni, St. Yves si è mossa prontamente: «Abbiamo fatto presente il problema al ministero della Salute e ci hanno detto che era tutto “secondo la legge”. Allora abbiamo portato il caso davanti alla Corte suprema contro il ministero della Salute e l’ente che svolge servizi per loro. A marzo la Corte suprema ha deciso che il ministero della Salute dovrà stabilire un comitato per approfondire le nostre richieste. Vedremo come procederà nei prossimi mesi. La questione riguarda migliaia di persone».

Lo smacco di Cremisan

Una delle storie più note di cui si è occupata la Società di St. Yves è il caso Cremisan. Le proteste e le azioni legali condotte tra il 2004 e il 2015 per impedire la costruzione del muro di separazione nella valle del Cremisan, nei pressi di Betlemme, non hanno raggiunto l’obiettivo sperato. Ad oggi il muro è stato costruito, ma c’è un varco di 225 metri per tenere collegato il convento e la scuola con le persone che servono a Betlemme. Il varco potrebbe essere chiuso in qualunque momento. «I proprietari di terre private, invece, non hanno avuto questa fortuna. Le loro terre sono dietro il muro e possono accedervi solo attraverso un “varco agricolo”- spiega Raffoul Rofa -. È una porta costruita sul muro, che si può aprire solo a un certo momento dell’anno, durante il momento del raccolto, ma bisogna comunque avere il permesso. È una grande ingiustizia».

Nemici di nessuno

In Area C della Cisgiordania, la Società di St. Yves lavora spesso per impedire la demolizione di edifici, come racconta il direttore: «Di solito ci opponiamo attraverso un’azione urgente. Ricordo il caso di una scuola a est di Betlemme, per esempio. Era vicina a un insediamento e dicevano che i permessi non erano in regola. Così era stata già demolita. L’Autorità Palestinese la ricostruì e venne a chiedere la nostra assistenza legale. Vennero di sabato e il nostro avvocato preparò immediatamente la petizione e la portò alla Corte suprema. Quella scuola è ancora lì».

I palestinesi della Cisgiordania chiedono assistenza legale anche per quanto riguardo ai permessi di movimento, quando vengono loro negati. Spesso le motivazioni fornite hanno a che fare con la «sicurezza». Spetta allora alla Società di St. Yves cercare di capire le ragioni effettive: può essere per omonimia con personaggi considerati pericolosi, per familiari coinvolti in problemi giudiziari o per aver preso parte a manifestazioni di protesta.

Attraverso il lavoro degli avvocati, si cerca di denunciare inoltre le «punizioni collettive», come nei casi degli attacchi a militari israeliani. Ogni volta che accadono la polizia impone la chiusura di negozi e strade oppure chiede alla gente di rientrare a casa. «Noi condanniamo ogni atto di violenza. Se qualcuno commette un errore, crediamo che debba essere punito, ma lui personalmente e non la collettività», sottolinea l’avvocato Rofa. In questi casi l’azione svolta dall’organizzazione è stata di scrivere lettere alla polizia e poi compilare relazioni per informare dell’accaduto.

«Crediamo che il nostro lavoro contribuisca alla pace e non lo facciamo perché odiamo qualcuno – chiarisce il direttore della Società di St. Yves -. Non odiamo nessuno, ma siamo qui per aiutare i poveri e gli oppressi, come ci disse mons. Sabbah al momento della fondazione. Questa è la nostra missione».

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