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I ponti di Ramadan

Chiara Cruciati
7 giugno 2018
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I ponti di Ramadan
In questo scatto di qualche anno fa un iftar comunitario in una via di Ramallah, Cisgiordania. (foto Issam Rimawi/Flash90)

In Palestina, come in altre parti del mondo, il mese musulmano di Ramadan - con il suo appello al digiuno e all'elemosina - coinvolge in qualche misura anche i cristiani...


Succede da anni, da quando Israele ha chiuso la Cisgiordania dentro una selva intricata di check-point militari: al calar del sole, nel mese sacro di Ramadan, giovani palestinesi cristiani si presentano ai posti di blocco e al momento della rottura del digiuno diurno distribuiscono acqua e dolcetti agli automobilisti musulmani, bloccati in lunghe file e desiderosi solo di tornare a casa per il pasto dell’iftar.

È accaduto anche quest’anno, le immagini immortalate dai passanti e pubblicate sui social, a dimostrazione di una verità che in tanti provano a confutare: qui, prima di essere cristiani e musulmani, ci si sente palestinesi. Una questione politica che sottende però una realtà storica: per millenni Asia e Africa sono state culla di culture, etnie e religioni diverse, confessioni che hanno convissuto e che convivono nonostante i tentativi divisivi e settari di leadership interne o poteri esterni.

Il Ramadan è da secoli un’occasione per ricordarlo. Nono mese del calendario islamico, commemorazione della prima rivelazione di Dio al profeta Muhammad, celebrato da quasi due miliardi di sunniti e sciiti nel mondo, inizia con la mezza luna che appare in cielo e finisce con la festa dell’Eid al-Fitr, che segna l’inizio del mese successivo. Nei 29 (a volte 30) giorni di Ramadan il corpo va purificato con il digiuno, dall’alba al tramonto, e l’anima con la zakat, l’elemosina ai più poveri. Le strade delle città e dei villaggi si colorano di lucine e lanterne e al calar del sole si riempiono per l’iftar, il pasto di rottura del digiuno, spesso consumato insieme fuori dalle moschee o nelle piazze cittadine.

Una tradizione islamica a cui le altre comunità non sono del tutto estranee, per la vicinanza, la convivenza, la voglia di partecipare. E così capita che ai checkpoint israeliani siano dei cristiani a far rompere il digiuno a musulmani assetati. O che nella moschea di Zine el Abidine nella cittadina palestinese di Taibeh, nello Stato di Israele, lo scorso anno sia stato un giovane cristiano, Nael Ghantous, a chiamare alla preghiera al posto del muezzin. Lo ha fatto in solidarietà con la comunità musulmana dopo i tentativi del parlamento israeliano di costringere al silenzio i minareti.

Accade anche in Egitto, dove le tradizioni a volte si trasformano: nel quartiere di Hadayek al-Maadi, al Cairo, da qualche anno a svegliare gli abitanti all’alba, per consumare l’ultimo pasto prima del digiuno (il suhoor), è una donna, Dalal Abdel Kader. Quarantasei anni, quattro figli, ha preso in mano la tabla (un tamburo di origine indiana) dopo la morte del fratello, mesaharati prima di lei. Canta, suona, chiama alla sveglia tenendo viva una tradizione antichissima, spesso soffocata dai suoni striduli delle sveglie elettroniche.

È a Shubra, un altro quartiere della capitale egiziana, che nella prima settimana di questo Ramadan l’Associazione copta per la pace ha distribuito cartoni di cibo alle famiglie musulmane povere, in un periodo di profonda crisi economica. Non è la prima volta, ma la 49esima: dal 1969 all’ingresso dell’ospedale Marjerjis i copti offrono l’iftar a chi non può permetterselo. Quest’anno la cerimonia si è chiusa con una seconda distribuzione: copie del Corano e del Vangelo per tutti.

A Lahore, in Pakistan, sono stati cristiani e sikh a portare in tavola la rottura del digiuno: decine di studenti delle due confessioni si sono seduti con giovani musulmani e hanno preparato per loro la cena dell’iftar. Da combattere insieme c’è la povertà, che attanaglia tante famiglie, ma anche l’ignoranza: i sikh, raccontava il volontario 20enne Dawood Ali, hanno scoperto di condividere con i musulmani la stessa tradizione, la zakat, la carità.

In Mauritania, nella capitale Nouakchott, le tende messe in piedi da un gruppo di organizzazioni non governative sono aperte da settimane: qui almeno 300 persone ogni giorno rompono il digiuno. Contadini, pastori, arrivati dalle zone rurali duramente colpite dalla siccità di quest’anno – la peggiore da cinque anni – che ha provocato un crollo della produzione e affamato intere comunità. Secondo la Croce Rossa, almeno il 14 per cento dei 4,3 milioni abitanti della Mauritania non ha cibo a sufficienza: in migliaia si stanno spostando dalle comunità agricole alle aree urbane in cerca di un sostegno. E per molti queste tende, dove i volontari si danno il cambio in cucina e alle pulizie, sono diventate indispensabili.

C’è invece chi l’iftar lo offre come segno di riconciliazione: è il caso di Yashpal Saxena, un indù di Delhi. La sua storia la racconta al-Jazeera: il figlio Ankit è stato ucciso qualche mese fa dai genitori di una giovane musulmana con cui era fidanzato da tre anni. Yashpal, quest’anno, ha aperto la sua casa a più di cento musulmani che sono venuti a pregare con lui e a mangiare insieme: «I suoi assassini erano musulmani, ma non significa che io debba nutrire rancore verso tutta la comunità». Un gesto di grande valore in un paese governato dell’ultra-nazionalista indù Narendra Modi.

Quello di Yashpal è, a suo modo, un atto politico. Ha una valenza politica anche la campagna globale lanciata in occasione del Ramadan dall’organizzazione statunitense World Hijab Day: l’associazione ha invitato donne di tutte le fedi a indossare il velo durante il mese sacro in solidarietà con le musulmane che in un mondo occidentale sempre più islamofobico sono discriminate perché in testa portano un hijab.

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