(g.s.) – Anche se gli sconfitti denunciano brogli, le elezioni parlamentari e presidenziali di ieri, 24 giugno, in Turchia hanno dato l’esito immaginato: la riconferma al potere del capo dello Stato Recep Tayyip Erdoğan. Il quale stavolta si ammanta delle prerogative – rafforzate rispetto a quelle del mandato in scadenza – conferitegli dalla riforma costituzionale del 2017, che ha impresso nelle istituzioni repubblicane turche un’impronta presidenziale.
Quasi 9 elettori su 10 (erano 59 milioni) si sono presentati ai seggi elettorali ed Erdoğan ha incassato il 52 per cento dei consensi, ma il suo Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp), che continua a perdere voti (pur restando al 42,8 per cento), ha dovuto appoggiarsi all’11,3 per cento incassato dal Partito del movimento nazionalista (Mhp, l’estrema destra dei Lupi grigi) per assicurarsi una salda maggioranza parlamentare. Sconfitto il principale antagonista del presidente uscente, il candidato del Partito repubblicano Muharrem Ince, che comunque si è aggiudicato il 30 per cento dei voti, espressi nei contesti metropolitani, in contrasto con la Turchia profonda e rurale che si tiene stretto Erdoğan, al vertice dello Stato dal 2014 e ora padrone assoluto del Paese. Tra le opposizioni che riescono ad entrare in Parlamento – e non era per nulla scontato – vi sono le forze di sinistra e, con 67 deputati, i rappresentanti della minoranza curda.
Archiviata la campagna elettorale il governo di Ankara torna alla quotidianità: vi sono sempre nuovi arresti di persone accusate di collusioni con il tentato colpo di Stato del luglio 2016; le truppe restano in assetto di battaglia al confine con la Siria per schiacciare, oltrefrontiera, ogni embrione di autonomia curda; l’economia nazionale suscita gravi preoccupazioni con un tasso d’inflazione a due cifre, la disoccupazione giovanile al 25 per cento, un pesante debito pubblico, la lira turca che continua a perdere terreno rispetto al dollaro.