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La lotta «indecente» dei sauditi

Laura Silvia Battaglia
11 maggio 2018
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L’arrivo del wrestling sugli schermi dell'Arabia Saudita ha creato non pochi imbarazzi di natura politica, anche perché sul ring sono salite le donne.


La questione si fa seria. Perché, se distendersi sul divano per godere dell’intrattenimento è cosa buona, giusta e sacrosanta, oggi anche in Arabia Saudita, soprattutto da qualche mese a questa parte, stavolta le botte da orbi – anche se per sport e per spettacolo – non possono proprio essere tollerate. Infatti, se ci si combatte a colpi di donne sbattute – letteralmente – sul ring, la sensibilità locale ritiene che questa cosa non vada bene. Insomma, è decisamente troppo per occhi poco abituati a visioni simili.

Così, un gruppo di funzionari sportivi sauditi si sono scusati dopo che immagini di donne vestite in modo assai succinto sono apparse sui maxi schermi durante un evento di wrestling dal vivo, organizzato nel regno dei Saud, e previsto dopo l’attivazione della misura del principe Mohammed bin Salman, che ha aperto il Regno all’intrattenimento pubblico. La questione è diventata così grave al punto tale che l’Autorità Sportiva saudita si è scusata in una dichiarazione ufficiale diramata online.

Dalla parte del diwan, confermano: gli spettatori da casa hanno riferito che la trasmissione in diretta della «Greatest Royal Rumble», organizzata dal colosso del wrestling americano Wwe, con cui Riyadh ha firmato un contratto decennale per organizzare show nel Paese, è stata interrotta per alcuni secondi, proprio mentre passavano sugli schermi le immagini incriminate, definite dall’Autorità saudita per lo Sport, «assolutamente indecenti». Così, la soluzione sarà ancora una volta una censura dentro la generale rivoluzione di questi mesi: non verranno più mostrate in televisione partite di wrestling tra lottatori di sesso femminile.

Al momento, però, alle donne saudite non sarebbe vietata la visione di cotanta muscolatura, che non dovrebbe causare loro scompensi ormonali eccessivi: infatti, gli organizzatori hanno permesso alle donne di vedere lo spettacolo di wrestling dal vivo alla Cittadella dello Sport Re Abdullah di Gedda, ma sempre e solo se le gentil signore saranno accompagnate dai loro «guardiani» maschi.

La questione delle sexy-wrestler è, però, meno grave di un’altra, che rischia di incidere davvero nella geopolitica, visti i tempi incerti che si vivono nel Golfo e le «scaramucce» tra Usa, Iran, Arabia Saudita e Israele. L’happening di lottatori è infatti diventato eminentemente politico quando un paio di concorrenti di doppia nazionalità americana-iraniana sono saliti sul ring sventolando la bandiera iraniana, prima di affrontare quattro lottatori amatoriali sauditi.

Risultato: l’azione ha provocato urla, fischi, insulti e un clima impossibile da sostenere. Dall’altra parte dell’oceano, intanto, ci sono state reazioni simili per l’esclusione, nei prossimi dieci anni di business e spettacoli previsti dall’accordo tra i sauditi e la Wwe, delle wrestler americane, solo perché donne.

Insomma, ognuno, in questa storia di botte da orbi, ha di che lamentarsi e può accampare le sue ragioni. Unico vantaggio: il ring è pronto all’occorrenza e tutti sono disponibili a darsele di santa ragione.



  

Perché Diwan

La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.

Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.

Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen). È corrispondente da Sana’a per varie testate straniere.

Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu). Cura il programma Cous Cous Tv, sulle televisioni nel mondo arabo, per TV2000.

Ha girato, autoprodotto e venduto otto video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).

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