Tra celebrazioni e controversie varie in occasione del settantesimo anniversario dello Stato di Israele, credo sia utile non passare sotto silenzio la singolare riuscita della ravvivata lingua ebraica, la lingua delle Scritture.
L’ebraico non si era mai estinto, certo, ma era divenuto una lingua «morta», nel senso che per molti secoli – su quanti precisamente non c’è un accordo – essa non era più «madrelingua» di nessuno. La sua conoscenza veniva acquisita studiando, e il suo uso, mai cessato, era solo letterario, prevalentemente religioso.
Per lunghi secoli la prima lingua degli ebrei fu quella del rispettivo luogo di dimora o un dialetto di essa o un dialetto della lingua del Paese di origine più remota. Così, per esempio, nell’Est europeo gli ebrei parlavano il dialetto tedesco che avevano portato con sé dalle terre germaniche dalle quali erano emigrati, e in molti Paesi lungo le coste mediterranee, i discendenti di quelli espulsi nel 1492 dalla Spagna (per editto dei «Re cattolici») parlavano il dialetto spagnolo proprio degli esuli, mentre l’arabo era la prima lingua degli ebrei nei territori arabi del Vicino Oriente.
Nell’Europa dell’Ottocento, l’«illuminismo» ebraico, seguito a quello dei «gentili» del Settecento, sfocia nella fioritura di una moderna letteratura profana nella lingua ebraica, seppur non ancora nel far ridiventare l’ebraico la prima lingua di alcuna comunità.
Questo passaggio cruciale avverrà solo dopo, in Gerusalemme, ad opera del filologo Eliezer Ben-Yehuda (1858-1922). Avendo lui deciso di parlare in casa solo l’ebraico, i suoi figli diventarono i primi, dopo tanti secoli, a poter considerare l’ebraico come lingua madre.
Poi, in tempi piuttosto rapidi, tale rinnovato uso dell’ebraico si diffonde e nascono e crescono intere generazioni che hanno nell’ebraico la loro prima lingua (il sottoscritto compreso).
Il rapporto tra la rinascita della lingua ebraica e le convinzioni ideologiche e politiche non è univoco.
Non pochi fondatori del sionismo preferivano che si proseguisse nell’uso del tedesco «alto», allora diffuso nella borghesia ebraica della Mitteleuropa (la madrelingua dei miei nonni materni), o che si adottasse invece un’altra delle principali lingue europee. D’altra parte, oggi, in Israele, anche i dissidenti «post-sionisti» si esprimono – naturalmente – in ebraico, e alcuni dei più eloquenti oratori nella lingua ebraica si trovano tra i cittadini arabi palestinesi, compreso qualche battagliero loro rappresentante nella Knesset, il parlamento israeliano.
Sono sempre più numerosi gli studiosi «gentili» delle Scritture ebraiche che afferrano l’insufficienza di rinchiudersi nello studio delle sole fasi antiche della vivente lingua ebraica, come se essa fosse una delle diverse lingue dell’antico Vicino Oriente da tempo uscite di scena.
Trovo insostenibile l’apologia di altri che riterrebbero l’ebraico delle Scritture e quello odierno due lingue diverse, come lo sono, per esempio, l’inglese e lo svedese. In verità – ne sono testimone diretto – è molto più facile per il ragazzo israeliano medio di oggi leggere e capire il Pentateuco che per il suo coetaneo italiano leggere e capire le opere di Dante. E quanto accettabile sarebbe per uno studioso americano della Divina Commedia rifiutarsi di conoscere il buon italiano di questo nostro tempo?
Giovani biblisti, lasciate che ve lo dica apertamente: se volete conoscere la lingua delle Scritture, dovete imparare pure a leggere il quotidiano (Ha’Aretz) e a conversare in ebraico nelle strade di Tel Aviv.
Terrasanta 3/2018
Il sommario dei temi toccati nel numero di maggio-giugno 2018 di Terrasanta su carta. Tutti i contenuti, dalla prima all’ultima pagina, ordinati per sezioni. Buona lettura!
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