Ai non addetti ai lavori l'urbanistica può sembrare una materia noiosa, eppure è importante, perché disegna il futuro delle città. Nei giorni scorsi sono state adottate nuove decisioni su Gerusalemme.
Puntuale come sempre Gerusalemme è già uscita dai radar del circo dei media. Gli stessi che segnalavano il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti come l’ultimo spintone che avrebbe trascinato tutti nel baratro, hanno smesso in fretta di occuparsene appena trascorsi un paio di giorni senza notizie di nuovi scontri e nuove vittime. Va così da anni, non c’è da stupirsi. Piuttosto – ormai a freddo – vale la pena porsi un’altra domanda: tra i fatti di queste ultime due settimane, quali sono destinati a incidere di più sulla quotidianità di chi vive a Gerusalemme?
Con buona pace di Donald Trump e della retorica versata nella cerimonia di qualche giorno fa, il trasferimento dell’ambasciata cambia ben poco: una scritta su una targa e sei persone in più che lavoreranno in quello che fino a pochi giorni fa era un consolato. È vero, ci sono anche le ripercussioni politiche di un atto simbolico; ma questo è un discorso che ha a che fare con un negoziato di pace che non esiste più da molto prima dell’arrivo di Trump alla Casa Bianca. Ora si dice che a fine giugno Washington renderà noto il piano di pace che Jared Kushner, il genero del presidente, da mesi sta negoziando principalmente con i sauditi e che prevedrebbe l’ipotesi di uno Stato di Palestina privato di gran parte degli insediamenti israeliani e con capitale Abu Dis. Una cosa semplicemente improponibile per qualsiasi leadership palestinese e dunque destinata a rimanere un puro esercizio retorico.
Tanto rumore per nulla, dunque? No. Perché in realtà la scorsa settimana qualcosa di importante su Gerusalemme è successo davvero; ma – come spesso accade – è passato via inosservato, nascosto dalla cortina fumogena delle polemiche sull’ambasciata. Domenica 13 maggio – il giorno prima della fatidica cerimonia con Ivanka Trump – in Israele cadeva il Jerusalem Day e il governo Netanyahu ha pensato bene di celebrarlo con una sessione speciale dedicata alla Città Santa. In questa seduta tenuta al Bible Lands Museum l’esecutivo ha approvato un pacchetto di misure che, a detta dello stesso premier Netanyahu, «mirano a costruire e sviluppare Gerusalemme a est e a ovest, a nord e a sud, in tutte le direzioni».
Guardandoci dentro non è esattamente così: tra tutte le direzioni ce n’è una particolarmente privilegiata, ed è ovviamente la direttrice est, vale a dire quella dove si concentra la maggior parte della popolazione palestinese (un terzo degli oltre 850mila abitanti). Nel pacchetto intanto c’è il via libera al finanziamento da 200 milioni di shekel (quasi 50 milioni di euro) per la realizzazione del primo lotto della cabinovia urbana, il contestato progetto che dalla vecchia stazione ferroviaria con un percorso a mezz’aria dovrebbe portare migliaia di visitatori fino alla Porta dell’Immondizia, la principale via d’accesso al Muro del Pianto. Come scrivevamo qualche settimana fa qui su Terrasanta.net (A Gerusalemme visite guidate contro il progetto di cabinovia) si tratta di un progetto contestato, perché – appunto – andrebbe ancora una volta a impattare pesantemente sul quartiere di Silwan, il quartiere arabo di Gerusalemme est più vicino alle mura, da tempo nel mirino dei coloni che intorno al parco archeologico della Città di Davide (da loro stessi amministrato) stanno rinforzando la propria presenza.
Ma nei provvedimenti approvati dal governo israeliano nel Jerusalem Day 2018 la conferma del progetto sulla cabinovia è solo l’aperitivo. Ben più sostanzioso è infatti il via libera politico alla cosiddetta Land Regulation. Di che cosa si tratta? È un programma urbanistico destinato a lasciare profondamente il segno a Gerusalemme est. Dal 1967 a oggi una delle questioni chiave in questa parte della città strappata alla Giordania con la Guerra dei Sei giorni è stata l’assenza di un catasto vero e proprio, un fatto che aveva creato evidentemente una situazione nebulosa riguardo a qualsiasi contenzioso. Ora il governo Netanyahu dice: assumiamo anche questo aspetto della sovranità a Gerusalemme est chiedendo a ciascun abitante di dimostrare la proprietà del terreno sul quale abita e definendo un quadro chiaro.
Non è un caso che questa mossa sia arrivata in parallelo al trasferimento dell’ambasciata Usa: definire il catasto è infatti un’affermazione forte di sovranità su Gerusalemme est. Ma anche al di là dell’aspetto politico-diplomatico c’è da chiedersi con quale criterio avverrà quest’operazione fortemente voluta dal ministro della giustizia Ayelet Shaked (vicinissima al mondo dei coloni). Spesso infatti in questa parte della città non esistono pezzi di carta che dimostrino una proprietà; in più la guerra del 1948 provocò massicci spostamenti di popolazione a Gerusalemme, con tanti arabi che vivevano nei quartieri della parte ovest che si spostarono nelle case lasciate vuote dagli ebrei a est e viceversa. Che cosa potrebbe accadere, allora? Che discendenti di ebrei che prima del 1948 vivevano nei quartieri orientali subito fuori dalle mura (o associazioni di coloni che da loro ne hanno acquisito presunti diritti) reclamino le case dove vivevano. È un fenomeno che si sta già verificando da tempo in alcune zone particolarmente calde di Gerusalemme come Sheik Jarrah o la stessa Silwan: in forme diverse gruppi di coloni assumono nuovamente il controllo di case in mezzo a quartieri arabi sbandierando il fatto che erano proprietà di ebrei prima del 1948. In pratica nei fatti applicano proprio quel «diritto al ritorno» che – politicamente – lo Stato di Israele ritiene inammissibile per i palestinesi che nello stesso anno e nello stesso conflitto lasciarono le loro di case. Come affronterà questa questione l’annunciata «Land Regulation»? E – vista l’esperienza nella gestione delle aree considerate State Land in Cisgiordania – a favore di chi andrà l’utilizzo dei terreni su cui nessuno a Gerusalemme sarà in grado di provare un diritto di proprietà?
Alla fine, molto più delle cerimonie e delle bandiere è sempre una disciplina noiosa come l’urbanistica a spianare la strada alle prove di forza più clamorose. Con la complicità di chi si ostina a non guardarci dentro, fermandosi alle discussioni sulle bandiere.
—
Clicca qui per leggere l’articolo del Times of Israel sui provvedimenti adottati dal governo Netanyahu nel Jerusalem Day
Clicca qui per leggere la notizia del Jerusalem Post sull’approvazione della funivia urbana
Clicca qui per leggere il report di Ir Amin e Peace Now sulle case di Batan al-Hawa nel quartiere di Silwan reclamate dai coloni in nome del «diritto al ritorno» degli ebrei fuggiti nel 1948
Perché “La Porta di Jaffa”
A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.