A Gaza parlare di emergenza è esercizio futile: le crisi che attanagliano la Striscia sono strutturali da oltre dieci anni, dall’inizio del blocco israeliano imposto sull’enclave palestinese. Crisi energetica, crisi idrica, crisi economica, crisi sociale. E crisi sanitaria: i continui blackout di energia elettrica, la quasi totale assenza di acqua potabile, la penuria di medicinali e attrezzature mediche a causa dei confini chiusi sono la normalità da anni.
Una normalità che oggi vive un ulteriore degrado: dal 30 marzo a oggi, dalla Giornata della Terra (commemorazione dell’uccisione di sei palestinesi in Galilea nel 1976 durante proteste a difesa delle terre minacciate di confisca da parte delle autorità israeliane), ogni venerdì gli ospedali di Gaza vedono arrivare feriti. Centinaia ogni settimana, più di 7 mila in poco più di un mese secondo i dati del ministero della Salute.
Sono i manifestanti che prendono parte alla Grande Marcia del Ritorno, iniziativa popolare lanciata dai comitati locali e a cui hanno aderito (lasciando a casa le bandiere su richiesta degli organizzatori) tutti i partiti politici palestinesi, da Fatah ad Hamas, dal Fronte Popolare al Fronte Democratico.
Dal 30 marzo, nelle tende dei campi eretti lungo le linee di demarcazione tra la Striscia e Israele, migliaia di palestinesi – donne, uomini, anziani, bambini, intere famiglie – cucinano insieme, danzano, giocano, cantano. La scelta delle tende non è casuale: dietro la marcia sta la commemorazione della Nakba, la catastrofe palestinese che quest’anno giunge al suo 70esimo anno. Ma l’entusiasmo che muove i palestinesi nel prendere parte alla manifestazione è la sua natura «attiva»: la concreta rivendicazione del diritto al ritorno, sancito dalle Nazioni Unite con la risoluzione 194 del 1948, che riconosce a ogni palestinese rifugiato e ai suoi discendenti il diritto a tornare nella propria terra e a ricevere compensazioni per i danni subiti.
Da allora nessun palestinese ne ha mai goduto. Da qui l’idea di marciare, camminare verso confini che da sette decenni tengono lontani dalle proprie origini. Un’iniziativa pacifica e popolare che si trova di fronte l’esercito israeliano: fin dal primo giorno il governo e i vertici delle forze armate hanno inviato sul posto i tiratori scelti. Che aprono il fuoco, in modo indiscriminato: nel momento in cui scriviamo sono almeno 50 le vittime, molti adolescenti, due giornalisti. E sono oltre 7mila i feriti per inalazione di gas lacrimogeni e proiettili.
Spari anche sui manifestanti in fuga, la denuncia di Amnesty International
Molti di loro sono stati colpiti alle gambe, tante le amputazioni eseguite negli ospedali di Gaza. Una violenza di fuoco che Amnesty International ha recentemente condannato, arrivando a chiedere alla comunità internazionale l’embargo su Israele: «Il tempo delle simboliche dichiarazioni di condanna è finito – ha detto Magdalena Mughrabi, vicedirettrice di Amnesty per Medio Oriente e Nord Africa –. La comunità internazionale deve agire concretamente e fermare l’afflusso di armi e di equipaggiamento militare a Israele. Non farlo significherà continuare ad alimentare gravi violazioni dei diritti umani contro uomini, donne e bambini che già vivono nella sofferenza».
Nel rapporto pubblicato dall’associazione si entra nei dettagli: i manifestanti vengono colpiti, sebbene disarmati e distanti dalle frontiere, alla testa, al petto, alla schiena mentre scappano, alle ginocchia. I proiettili provocano danni a ossa e tessuti che in moltissimi casi si sono tradotti in paralisi permanenti e amputazioni degli arti. Nuovi disabili per un territorio già drammaticamente colpito da un tasso di disoccupazione che supera il 43%.
«Secondo esperti militari e medici legali che hanno esaminato le immagini delle ferite – continua il rapporto di Amnesty – molte sono compatibili con quelle causate dai fucili d’assalto Tavor, di fabbricazione israeliana, dotati di munizioni di 5,56 mm. Altre dai fucili M24, prodotti dalla statunitense Remington, dotati di munizioni da caccia di 7,62 mm che si ingrandiscono ed espandono all’interno del corpo». Polverizzando le ossa, aggiunge Medici senza Frontiere.
Per il debole sistema sanitario di Gaza far fronte a un numero tanto elevato di feriti è pressoché impossibile. Le immagini che giungono dalla Striscia mostrano corridoi affollati, ambulanze che con difficoltà riescono a portare via rapidamente i feriti, medici che li accolgono sulla soglia delle cliniche per fornire un primo aiuto semplicemente con antidolorifici, consapevoli del poco spazio a disposizione all’interno. Nei 31 ospedali della Striscia mancano medicinali, sale operatorie, medici e infermieri. I turni sono massacranti e lo staff lavora a ritmo serrato per liberare posti letto in vista del successivo venerdì: molti pazienti vengono operati e rimandati a casa due o tre giorni dopo per poter accogliere le nuove ondate di feriti, situazione che aumenta la probabilità di infezioni.
«Abbiamo a che fare con pazienti in attesa di essere operati, diamo loro antidolorifici, la priorità è per le operazioni salvavita. Poi possiamo pensare al resto. Il solo antidolorifico che abbiamo è l’ibuprofene e lo devo razionare», spiega Mohammed Aslan, medico all’ospedale di al-Shifa. Una carenza strutturale, aggravata dalle ultime tre offensive israeliane sulla Striscia, tra il 2008 e il 2014, che hanno danneggiato e reso inutilizzabili alcuni ospedali. Ed è aggravata dalle divisioni politiche palestinesi e dalle pressioni dell’Autorità nazionale di Ramallah: dal aprile 2017 l’Anp ha tagliato del 30 per cento il già magro stipendio di 60 mila dipendenti pubblici, tra cui gli operatori sanitari.