Secondo il Rapporto mondiale sulla felicità, Dubai sarebbe tra le città più felici al mondo. Sarà poi vero? Come si valuta la felicità dei cittadini in questo angolo di mondo?
Prima fu il ministro, anzi la ministra, per la felicità. Poi è arrivata la giornata (della felicità, of course). Adesso, è giunta la consacrazione nell’elenco delle città dove si vive più felici al mondo. Sarà, ma per Dubai è certamente una vittoria. Soprattutto dopo che, nel 2016, l’annuale Rapporto mondiale sulla felicità faceva scivolare Dubai dal 20esimo al 26esimo posto. Si può dire così che il piano messo a punto negli ultimi anni dal principe Mohammed bin Zayed al Nahyan e dalla Dubai Holding, guidata dall’amministratore delegato Ahmed bin Byat, sia giunto a giusta e degna conclusione. Probabilmente è merito dell’happiness index, uno strumento di cui gli Emirati si sono dotati per saggiare la contentezza dei loro cittadini, tramite un piano di miglioramento della vita urbana denominato Smart City: 23 terminali touch–screen distribuiti per tutta la città negli edifici pubblici, e collegati agli uffici governativi per incoraggiare le persone a dare un riscontro di soddisfazione sui servizi con tre “voti” a disposizione. In alternativa, è possibile anche raccontare la propria esperienza.
«Generare felicità è il risultato della nostra smart city agenda», dice bin Byat. E come dargli torto, in una città che fa girare miliardi in investimenti, affari e lusso? Il piano degli Emirati è così smart che nel ruolo di ministro era già stata scelta la bella e intelligente Ohood al Rumi, la ventinovesima donna eletta ministro nei Paesi del Medio Oriente, in compagnia di Shamma al Mazrui, ministro della Gioventù e della sceicca Lubna, figlia di Khaled al Qasimi, già ministro per la Tolleranza.
Cosa si richiede a un ministro della felicità? Inventarsi delle soluzioni per accrescere le buone condizioni di vita e, ovviamente, la soddisfazione dei cittadini. Come? Offrendo sostenibilità a tutte le classi sociali che vivono a Dubai e anche qualcosa di meno materiale che però sembra non sia contemplato dal governo di Khalifa. Le posizioni in cima alla classifica delle città più felici al mondo restano appannaggio di Danimarca, Svizzera, Finlandia, Norvegia, Islanda, comunque di tutte le città del Nord Europa.
Cosa mancherebbe a Dubai? Probabilmente qualche aggiustatina ai princìpi che regolano i diritti umani, le condizioni dei lavoratori stranieri, in particolare delle colf, e in base ai quali il governo di Dubai dovrebbe spiegare il perché di detenzioni arbitrarie o anche di sparizioni di oppositori della famiglia reale, in genere blogger o attivisti piuttosto critici. Al momento, sembra dunque abbastanza difficile che Dubai si aggiudichi il posto di città più felice del mondo in assoluto, sempre se verranno seguiti i parametri correnti per redigere i prossimi World Happiness Report.
Certo è che la classifica, stilata sul questionario del Gallup World Poll, con sede negli Stati Uniti, non considera il sole come un fattore di felicità, almeno psicologica. A noi sembra che questa voce dovrebbe essere presa con maggiore serietà, al netto del sacrosanto concetto di libertà individuale e di espressione. Insomma, non di solo lusso vive l’uomo ma, suvvia, nemmeno di sole brume.
Perché Diwan
La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.
Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.
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Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen). È corrispondente da Sana’a per varie testate straniere.
Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu). Cura il programma Cous Cous Tv, sulle televisioni nel mondo arabo, per TV2000.
Ha girato, autoprodotto e venduto otto video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).