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Il cielo cupo di Gaza

Giorgio Bernardelli
12 aprile 2018
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Lungo le recinzioni della Striscia domani potrebbero tornare a scontrarsi palestinesi e israeliani. Siamo rassegnati a pensare a Gaza solo così. Non potrebbe essere diversamente?


Siamo alla vigilia di un altro venerdì a Gaza. Con il rischio concreto che domani si materializzi nuovamente lo scenario delle ultime settimane, con i cecchini dell’esercito israeliano pronti a sparare a chi prova ad abbattere le recinzioni nelle proteste che ogni settimana da qui al 15 maggio sono annunciate nella Striscia. È sempre la solita storia: quando in Terra Santa i rapporti tra israeliani e palestinesi toccano il punto più basso, è sempre a Gaza che se ne paga il prezzo più alto. Perché è il posto più comodo per un braccio di ferro ideologico, senza prospettive (ma tanto bello per chi il conflitto lo vive solo sui social network).

Del resto, ci siamo tutti rassegnati a pensare a Gaza solo in questi termini. E allora è molto interessante un articolo scritto in questi giorni per Al Monitor da Yossi Beilin, l’uomo politico che in Israele – ancora più di Yitzhak Rabin – incarnò il sogno degli Accordi di Oslo. Beilin parte da un dato di fatto: Gaza è il posto da cui la politica costantemente scappa; nessuno mai vorrebbe averci a che fare. Ricorda quando negli anni Settanta, durante il negoziato di Camp David, il presidente egiziano Anwar al-Sadat raccontò a Shimon Peres che Menachem Begin – il premier israeliano di allora, esponente della destra – cercò di cedergli Gaza in cambio di Yamit, l’insediamento nel Sinai poi sgomberato da Israele. «Non sono mica stupido, tieniti per te quel dannato posto», gli avrebbe risposto Sadat. In quarant’anni l’unica cosa a essere cambiata è che nella Striscia la situazione è diventata ancora più ingestibile per chiunque. Così il massimo che il mondo si azzarda a fare sono le discussioni sugli «interventi umanitari», come il vertice tenutosi a Washington in marzo con israeliani, sauditi ed emirati del Golfo, ma senza i palestinesi. Un posto per parlare di Gaza ma senza Gaza; fotografia perfetta delle fumose iniziative di Jared Kushner, il genero di Donald Trump a cui il presidente ha affidato niente meno che il compito di arrivare a un accordo di pace in Medio Oriente fondato sull’asse Israele-Arabia Saudita.

Ma Gaza è per forza un posto maledetto? È la domanda che si pone Beilin elencando tutta una serie di fattori che – al contrario – giocherebbero a favore della Striscia: le riserve di gas naturale off-shore, l’alto livello di istruzione dei suoi giovani, la posizione climatica favorevole, le potenzialità turistiche, la vicinanza con Tel Aviv. Con la pace tra israeliani e palestinesi – sostiene Beilin – Gaza sarebbe uno dei posti con le potenzialità migliori. E che non sia solo teoria lo prova quanto accaduto tra il 1994 e il 2000: fu un periodo di forte sviluppo per la Striscia, anche perché l’attuazione degli Accordi di Oslo cominciò proprio qui. Tutto questo per dire che la «maledizione» di Gaza è solo politica: è la mancanza di una visione, di una prospettiva per il futuro, ad aver fatto precipitare la Striscia nel baratro costato già tre guerre in pochi anni e ora questo nuovo braccio di ferro che si annuncia lungo.

Ma se tutto questo è vero, la conseguenza è che il primo passo necessario per uscirne davvero è mentale: uscire dalle semplificazioni su Gaza; dallo schema che un milione e mezzo di persone che vivono nella Striscia possano essere semplicemente una pedina da manovrare. Riconoscere che tenere per undici anni isolato un territorio non serve a nulla per far evolvere in meglio la situazione politica (e alla lunga è anche molto meno efficace di quanto sembri per la sicurezza di Israele).

Alla fine, si tratta solo di provare a guardare in faccia davvero la gente che vive a Gaza. Leggere la testimonianza di Albier Almasri, una trentunenne uscita per la prima volta per un mese dalla Striscia che racconta alla Reuters che cosa voglia dire respirare ma anche sapere che poi comunque ritornerai là senza sapere se ti capiterà ancora. Oppure la storia di Yasser Murtaja, il fotogiornalista ucciso venerdì scorso dai cecchini israeliani e bollato in fretta dal ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman come «un uomo di Hamas»; salvo poi scoprire che nel 2015 Hamas lo aveva persino fermato e picchiato per aver ripreso a Gaza qualcosa che non doveva.

Almeno da lontano fermiamoci sulle loro storie, proviamo ad ascoltare e capire prima di lanciarci nelle polemiche di sempre. Avremo fatto un passo avanti per far cadere i luoghi comuni che ancora più dei pneumatici in fiamme rendono nero il cielo Gaza.

Clicca qui per leggere l’articolo di Yossi Beilin

Clicca qui per leggere l’articolo del Jerusalem Post sul vertice di marzo a Washington

Clicca qui per leggere la testimonianza di Abier Almasri

Clicca qui per leggere la notizia su Yasser Murtaja

  


 

Perché “La Porta di Jaffa”

A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.

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