Una recente indagine di un istituto di ricerca israeliano, il Geocartograhy Knowledge Group, rivela a sorpresa che il problema del ritorno dei 700 mila profughi palestinesi costretti ad abbandonare le loro terre nel 1948 non è completamente rimosso o rifiutato dalla popolazione ebraica. Su un campione di 500 ebrei israeliani intervistati, il 16,2 per cento ha riposto che non sarebbero contrari a un rientro dei palestinesi e persino dei loro milioni di discendenti, a condizione che ciò avvenisse in maniera pacifica.
Certo, è una percentuale minoritaria. La stessa cifra vista dal lato opposto parla di un 83,8 per cento che non vuole nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi. Tuttavia, fa riflettere, specie se paragonata all’approccio del governo di Benjamin Netanyahu nei confronti delle manifestazioni popolari organizzate in queste settimane a Gaza, per chiedere il diritto al ritorno. Dal 30 marzo, ogni venerdì, giornata della protesta, tiratori scelti dell’esercito israeliano puntano i fucili ad altezza d’uomo (la regola d’ingaggio nelle ultime due settimane parla di altezza gambe) contro persone per lo più disarmate, colpevoli di avvicinarsi troppo alla barriera di divisione, magari dando fuoco a copertoni d’auto. Il bilancio è già di oltre trenta morti, tra cui anche bambini, e migliaia di feriti palestinesi. Tutto ciò nella quasi indifferenza dell’opinione pubblica israeliana e nell’imbarazzo della comunità internazionale. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu si è limitato a invocare una commissione d’inchiesta, su cui è però stato prontamente posto il veto statunitense.
La questione del diritto al ritorno, finita nel dimenticatoio anche quando negli anni Novanta si negoziava per una soluzione al conflitto israelo-palestinese, è stata rilanciata da Hamas in coincidenza con i festeggiamenti in Israele per il settantesimo anniversario della nascita dello Stato ebraico. Il 14 maggio 1948 significa per i palestinesi la Nabka, la catastrofe, la sconfitta e la perdita di case, villaggi, possedimenti, cittadine. Solo da Haifa, che allora rappresentava un centro e un porto marittimo pieni di vita, commerci e cultura, 60 mila palestinesi furono costretti dall’esercito israeliano a fuggire a Gaza, dove i loro discendenti sono tuttora intrappolati.
Su questo sfondo, il fatto che vi sia una minoranza di ebrei israeliani che non ha rimosso del tutto il dramma di centinaia di migliaia di palestinesi che nel 1948 divennero profughi a vita, mantiene aperto almeno uno spiraglio di speranza, dicono i pacifisti della rivista digitale israeliana +972 (testata che si richiama al prefisso telefonico internazionale del Paese).
La ricerca del Geocartograhy Knowledge Group chiede agli intervistati se sono disposti ad appoggiare il ritorno, “in condizioni pacifiche”, dei profughi palestinesi, specificando che la popolazione interessata si è decuplicata, in 70 anni, da 700 mila persone a 7 milioni. Un dato, quest’ultimo, che certo non facilita le cose. Eppure, sembra esistere uno zoccolo duro di ebrei disposti alla pace, anche se – data l’esiguità del campione preso nel sondaggio – non vi possono essere certezze assolute. Nel 16,2 per cento che risponde “sì”, le donne sono il doppio degli uomini; tra i giovani dai 18 ai 34 anni, la percentuale di favorevoli cresce al 25, 1 per cento, mentre tra i 35 e i 55 anni scende al 7,3 per cento, per risalire poi al 15, 1 per cento oltre i 55 anni. Gli ebrei più ricchi sono più aperti al ritorno dei palestinesi (21,9 per cento), così come i laici (22,3 per cento) contro un 5,2 per cento di ultraortodossi.
Già nel luglio del 2017, lo Smith Institute, insieme alla Israel Social Tv aveva fatto un sondaggio sull’argomento, intervistando 400 ebrei israeliani nel nord del Paese. La domanda era più accomodante: «Appoggiate il ritorno di arabi a vivere in terre dove abitavano prima del 1948, a condizione che non ci siano residenti ebrei in quelle zone?». Il 26 per cento si era detto favorevole. Anche in quel caso le donne erano state il doppio degli uomini.