Ghouta e Afrin, due teatri di guerra in Siria, due livelli di attenzione diversi da parte dei media (e dei governi) occidentali. Riflettori sul primo, penombra sul secondo. Perché?
Qual è, esattamente, la differenza tra una cannonata dell’esercito del turco Recep Tayyip Erdoğan e una dell’esercito siriano agli ordini di Bashar al-Assad? E in che cosa si distingue la fucilata di un soldato russo da quella di un miliziano dell’Esercito libero siriano? Io non lo so. Ma a giudicare dalle reazioni della politica e dei media, invece, di differenze ce ne sono tante. Perché le cannonate e le fucilate siriane che colpiscono Ghouta sono oggetto di sdegno internazionale, mentre quelle che si abbattono su Afrin, la città curda del Nord della Siria ormai circondata dall’esercito turco con i suoi 323 mila abitanti (dati Onu), non sono degne né di intervento né di interesse. Niente foto di bambini in pigiama da Afrin, niente cordoglio per le vittime civili. E sì che non mancano: 220 nella sola prima settimana di marzo, secondo le notizie diffuse dalle autorità curde della città.
A ben vedere, in realtà, qualche differenza ci sarebbe. A Ghouta sono asserragliati gruppi di terroristi che da anni opprimono la popolazione locale certo non meno di quanto possa aver fatto Assad in passato e che hanno sparato migliaia di missili e colpi di mortaio verso i quartieri civili di Damasco, provocando molte vittime innocenti. Ad assediare Afrin insieme ai turchi, invece, ci sono anche 25 mila miliziani del cosiddetto Esercito libero siriano che per anni hanno combattuto fianco a fianco con lo Stato islamico, Al Qaeda e Al Nusra, alleati cioè degli stessi sgherri che invece i curdi del Rojava siriano hanno tanto contribuito a sconfiggere.
La lotta al terrorismo islamista non era una priorità internazionale? E allora com’è possibile che oggi gli Stati Uniti, che colpiscono l’esercito regolare siriano e minacciano di farlo ancor più intensamente, accettino con tanta tranquillità il massacro dei curdi e trattino serenamente con Erdoğan?
La maledizione della politica internazionale, e in particolare della politica occidentale, è il doppio standard. Quell’idea che le porcherie del nostro nemico siano solo porcherie e quelle del nostro amico odorino invece di violette. Che l’arma dell’avversario sia una minaccia alla pace e quella dell’alleato un incentivo alla pace. Che la strage dei nostri complici sia una necessità e quella dei complici altrui un atto efferato.
È vero, già Alessandro Manzoni ci avvertiva che «così va spesso il mondo… voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo». Ma lo faceva, appunto, nell’ottavo capitolo dei Promessi Sposi che lui stesso definiva il capitolo degli imbrogli e dei sotterfugi. E a proposito di imbrogli. Il governo inglese è molto sdegnato per l’attentato contro Sergej Skripal, l’ex colonnello dei servizi segreti militari russi che faceva il doppio gioco e che ha subito un attentato con il gas nervino. La premier Theresa May accusa la Russia ed espelle i suoi diplomatici. Tutto legittimo, tutto giusto. Ma nello stesso tempo la stampa inglese racconta che nel triennio 2015-2017 lo stesso governo inglese ha venduto attrezzatura e congegni per lo spionaggio per milioni e milioni di sterline a Paesi come Emirati Arabi Uniti, Turchia, Arabia Saudita, Egitto, Qatar e così via.
La signora May si è mai chiesta per che cosa venissero usati quei congegni? È una mia ipotesi balzana che possa essere serviti a spiare e incastrare qualche oppositore o dissidente? Che magari in Turchia abbia contribuito a far finire in galera qualche giornalista e in Arabia Saudita qualche attivista sciita? E va bene così?
Perché Babylon
Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.
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Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com