In questi giorni di Pasqua molti ebrei israeliani ricordano la liberazione del loro popolo dalla schiavitù egizia, ma dibattono anche del comandamento biblico di custodire chi è straniero in mezzo a loro.
È vigilia di Pasqua anche per gli ebrei a Gerusalemme: quest’anno il seder – la cena rituale durante la quale oggi famiglia ebraica rivive l’haggadah, il racconto della liberazione del proprio popolo dall’Egitto – cade proprio nella stessa sera di quello che per i cristiani di rito latino è il Venerdì Santo. Ma è soprattutto un’altra «coincidenza» a far discutere in Israele: lo scadere dei tre mesi di tempo che il governo israeliano ha dato a 38 mila richiedenti asilo eritrei e sudanesi per lasciare il Paese volontariamente. Pena il carcere e lo spettro di un’espulsione forzata, stabiliva il piano annunciato all’inizio di gennaio.
Con un tempismo amaro i tre mesi sarebbero scaduti proprio il 31 marzo. Cioè esattamente nelle ore in cui ogni ebreo religioso ricorda il tempo della schiavitù nel Paese d’Egitto, rileggendo nel biblico del Deuteronomio comandi come «Abbi cura dello straniero che abita in mezzo a te» oppure «Non consegnerai al suo padrone lo schiavo che, dopo averlo lasciato, si sarà rifugiato presso di te».
A far saltare la concomitanza ci ha pensato l’Alta Corte di Giustizia che ha decretato uno slittamento per discutere un ricorso presentato dalle associazioni per i diritti umani sulle reali condizioni che i richiedenti asilo troverebbero nei «Paesi terzi» verso i quali sarebbero espulsi. Paesi terzi non ufficialmente esplicitati, ma che tutti sanno essere l’Uganda e il Ruanda, che hanno firmato accordi segreti in questo senso con il governo israeliano salvo poi continuare a negarli pubblicamente.
Appare evidente l’ipocrisia dell’operazione: quali garanzie ci sono che richiedenti asilo che non possono essere rimandati in Paesi come l’Eritrea e il Sudan da cui sono fuggiti, trovino un’accoglienza dignitosa in posti che non riconoscono nemmeno di aver parlato di questo tema con Israele? E infatti ci sono testimonianze di eritrei e sudanesi che raccontano di essere arrivati in Ruanda e di essere stati poi mandati via anche da lì, nonostante gli impegni che sarebbero scritti nei memorandum firmati e lautamente ricompensati dal governo israeliano. Su questo fa leva il ricorso che la Corte Suprema ha accettato di discutere: ora si attende che il governo Netanyahu presenti le sue risposte. Così il termine per le espulsioni è stato fatto slittare in avanti; attualmente resta comunque fissato al 9 aprile, fra una manciata di giorni.
Si capisce allora la mobilitazione di una parte della società civile israeliana che sabato scorso ha portato in piazza Rabin a Tel Aviv 20 mila persone per protestare contro queste espulsioni. Del resto, i fatti parlano da soli: i 38 mila eritrei e sudanesi sono arrivati prima che Israele completasse la costruzione di una barriera lungo il confine nel Sinai; oggi non ne arrivano più. Generalmente vengono da due realtà tra le più ferite dell’Africa: l’Eritrea (da dove proviene più del 70 per cento di questi richiedenti asilo) è un regime autoritario che impone un servizio militare a tempo indefinito che di fatto è una forma di schiavitù; il Sudan è un Paese da decenni scosso da gravi conflitti etnici. Eppure, tra il 2009 e il 2017 lo Stato di Israele ha esaminato appena 6.500 di queste richieste d’asilo e ne ha accolte in tutto 11 (lo 0,17 per cento). È evidente la politica della porta chiusa. Anche se in un Paese di otto milioni e mezzo di persone 38 mila richiedenti asilo sarebbero un numero relativamente piccolo. E per di più in Israele ci sarebbero anche spazi nel mercato del lavoro, come dimostra il fatto che molti di loro svolgono già oggi impieghi sottopagati.
Invece l’ossessione per l’«invasione» dall’Africa ha contagiato oggi anche Israele, con ampie fasce dell’elettorato che – dicono i sondaggi – sostengono la linea dura del governo. Se non che, appunto, arriva Pesach a ricordare la storia di «quando eravamo stranieri». E la discussione finisce per intrecciare anche la dimensione religiosa. Con la tentazione di sempre in ogni credo: piegare la Scrittura alle proprie convinzioni.
Ecco allora un dibattito interessante che in queste ore attraversa l’ebraismo ortodosso pure nel posto dove meno te l’aspetti: non la laica Tel Aviv, ma gli insediamenti della Cisgiordania. Perché nel suo messaggio di Pesach anche rav Shlomo Riskin – il rabbino di Efrat, una delle colonie sulle coline della Giudea – si è schierato dalla parte dei richiedenti asilo. «Provo dolore nel leggere il comando del Deuteronomio quando 38 mila persone giunte in Israele in cerca di un rifugio sicuro rischiano di essere espulse – ha detto –. La liberazione dalla schiavitù che Pesach annuncia è per ogni uomo». Su Arutz Sheva, il sito della destra nazionalista israeliana, gli ha risposto Batya Medad, anche lei colona ma a Shilo, in Samaria. «Noi non eravamo migranti illegali in Egitto», ha tuonato appellandosi ai distinguo. Tacciando anche rav Riskin dell’immancabile epiteto leftist, «di sinistra», puntualmente utilizzato per stigmatizzare chi in Israele solleva domande.
Ma alla fine in gioco c’è la questione fondamentale sulla Pasqua. Su ogni Pasqua. Al centro c’è l’epopea di un popolo, di una storia, di una comunità di credenti che celebra un proprio rito oppure un messaggio di liberazione che ha a che fare con il destino di ogni uomo? Il mondo ebraico – complice l’attualità – oggi discute di questo. Ma è una domanda molto preziosa anche per noi. Buona Pasqua a tutti!
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Perché “La Porta di Jaffa”
A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.