Stavolta diwan guarda all'arte islamica che partecipa alla bellezza presente nel mondo, che ci appare sempre più complesso e disorientato.
Rilassarsi, chiudere gli occhi e viaggiare seguendo un segno. Il segno della calligrafia e dei motivi geometrici che si prolungano sulle tappezzerie, sui muri, su pergamene e acquerelli e che oggi si spalmano sui nuovi materiali del design, dall’acciaio all’ottone, alla plastica. Il diwan di oggi, che letteralmente mette assieme diversi mondi, non può tacere dell’esistenza del sito del fotografo di viaggio David Wade, che raccoglie, tutti in uno, tutti i Pattern in Islamic art, ossia tutti gli schemi geometrici tipicamente musulmani scovati e scattati da lui stesso nei suoi viaggi in terre islamiche. Il sito del fotografo attrae amanti dell’arte islamica e semplici curiosi che, in cerca di fantasie di design per la tappezzeria del salotto o per le pareti della camera da letto, si trovano a scoprire ciò che li potrebbe rendere unici. E dopo il primo moto di sorpresa, imparano a conoscere la storia e l’arte islamiche.
In Pattern in Islamic Art Wade ha immortalato in centinaia di foto le decorazioni più belle dell’arte islamica, non importa se si trovino in Oriente od Occidente: dalla Zisa di Palermo, all’Alhambra di Granada, fino alle geometrie della moschea reale di Isfahan in Iran. Del resto, a Nord a Sud o a Est del Mediterraneo i motivi geometrici sono sempre gli stessi: arabeschi, floreali o calligrafici. E sono validi e pulsanti anche quando la cultura di maggioranza del Paese e il passato culturale di quelle terre non siano arabi ma sassanidi, romani, persiani, indiani, ellenici. I motivi geometrici su cui Wade si sofferma non sono solo puramente decorativi, ma anche architettonici, con funzioni portanti e con il loro effetto inevitabile di estatico smarrimento.
Il fotografo non è nuovo ad esplorare le linee verso l’infinito, nonché il gioco di forme che si intrecciano, fondono, creano e ricreano con ragione “illusionistica” e che Wade ha riproposto anche in un altro sito, Geometricism, dedicato ai giochi dei poligoni, in architettura (Maurits Cornelis Escher), musica (Johann Sebastian Bach), matematica (Kurt Gödel). E anche in Pattern in Islamic art sbocciano poligoni in ghirlande di fiori, calcoli, proiezioni.
Verrebbe da chiedersi perché Wade lo faccia, al di là delle esigenze di mercato, che impongono di trasformare anche un divano Ikea di serie in un oggetto desiderabile, nuovo e unico. Semplice. «Perché – dice – vedo nel sito una sorta di contrappeso all’infinita serie di cattive notizie che arrivano da quella regione, dal Medio e Vicino Oriente». E chi può dargli torto? Il mondo, sempre più complesso, ha bisogno di essere sommerso dalla bellezza. Anche quella dei labirinti dell’arte islamica. Perché «la necessità di esprimere e apprezzare la bellezza attraverso l’arte è una risposta umana universale». In tempi di brutture umane e di orrendi centri commerciali costruiti sulla falsariga di finti Canal Grande, questa è una felice colpa. Chapeau!
Perché Diwan
La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.
Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.
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Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen). È corrispondente da Sana’a per varie testate straniere.
Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu). Cura il programma Cous Cous Tv, sulle televisioni nel mondo arabo, per TV2000.
Ha girato, autoprodotto e venduto otto video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).